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Bob
Cheevers On
Earth As It Is in Austin
(Bob
Cheevers 2014)
Texas' troubadour bobcheevers.com |

Quindici canzoni e altrettanti ospiti, ciascuno ad accompagnare Bob Cheevers
nei singoli episodi di un disco acustico e fedele alla tradizione dei troubadour
texani. Questa la sostanza di On Earth As It Is In Austin, titolo
suggerito allo stesso Cheevers dal suo fedele chitarrista Dave Greaves, che mostrava
una scritta uguale sulla custodia dello strumento. Essendo di casa ad Austin da
diversi anni, il nostro songwriter ha pensato bene di chiamare a raccolta vecchi
e nuovi amici incontrati sulla strada, abbellendo di quel tanto che basta le sue
scarne ballate dai sapori country fuorilegge e dalle radici folk blues. Un'operazione
interessante soprattutto per i nomi coinvolti, anche se il repertorio regge l'impatto,
pur nella sua veste scarna: tra gli altri ci sono Walt Wilkins in The Sound
of a Door, Will Sexton in Made in Missisippi, Chris Cage nella spiritosa
You Sound Just Like Willie (a ricordarci le somiglianze vocali e di stile
tra Cheevers e Willie Nelson), Chip Dolan e il suo accordion in Creaky Old
Bones e Warren Hood in Hey Hey Billy. Una formula che esalta lo scheletro
tradizionalista di queste ballate e la storia stessa di un autore dello stampo
di Cheevers, una di quelle figure che lavorano nell'ombra, ma gode del rispetto
dei colleghi: sulla scena dalla fine dei sixties, trasferitosi in California e
poi a Nashville, prima di planare definitivamente in Texas, autore di qualche
successo per Johnny Cash e Waylon Jennings, ricorda da vicino un altro rinnegato
del movimento outlaw di Austin, Ray Wylie Hubbard. Se il territorio vi è
familiare... (Fabio Cerbone)
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 Bill
Wood, canadese di Montreal, ha alle spalle una lunga carriera, iniziata negli
anni ottanta con gli EyeEye, gruppo pop che ha inciso due album di successo, supportando
dal vivo band molto popolari come Glass Eye e Platinum Blonde. Da allora ha alternato
l'attività musicale a quella di restauratore e falegname, incidendo sporadicamente.
Alcuni anni fa ha avviato una collaborazione con l'amico bassista e produttore
Mark Shannon, che è sfociata in un album solista e nella formazione dei Woodies
con Chris Bennet alla chitarra e Dino Naccarato alla batteria, giunti al disco
d'esordio dopo un paio di mini-album. Bill è il leader, compone e canta buona
parte del repertorio, che si può catalogare come un incrocio vario e piacevole
di rock e pop. Non ci sono particolari ambizioni, se non quella di proporre canzoni
ben scritte e suonate con pulizia e competenza. Manca qualcosa, probabilmente
un po' di personalità e anche un indirizzo più preciso, perché se è vero che il
rock energico e ritmato di Push Ahead e Monster con le chitarre
piuttosto affilate e il roots rock di Frankie non stanno male accanto al
tocco più leggero di Beautiful Boys o al power pop profumato di anni sessanta
di Give Me A Kiss, quando si aggiungono le influenze anni cinquanta di
Silver Wings, il country elettroacustico di Welcome To The World,
il suono delle radici di Giant con la fisarmonica che accompagna la voce
apprezzabile di Mary Margaret Wood e gli echi dei Simple Minds di November
si resta un po' spiazzati e si ha l'impressione che ci sia troppa carne al fuoco.
(Paolo Baiotti)
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 Dopo
qualche anno di "esilio" a Portland, dove la vivace scena musicale cittadina è
servita a farle aprire i contatti con il mondo, Emma Hill torna nella più
isolata e selvaggia Alaska, paese da cui la sua avventura artistica era cominciata
nel 2006. Quattro dischi alle spalle e una collaborazione con il chitarrista Bryan
Daste che prosegue nel tempo, la Hill è una voce gentile del nuovo folk americano,
leggero soprano di chiara impronta tradizionale, che mette insieme fragranze country
rurali e una sensibilità indie folk più moderna. Al nuovo lavoro intitolato Denali,
collaborano ottimi musicisti locali, tra cui possiamo riconoscere i nomi di Evan
Phillips (Easton Stagger Phillips, The Whipsaws), anche produttore dell'album,
e Tim Easton ospite alla resonator. Con liriche che aprono il cuore dell'artista
e inevitabili riferimenti alla wilderness nord-americana, Emma Hill volteggia
leggera tra Bright Eyes, i ritmi scuri e romantici della stessa Denali
e le candenze più hillbilly di Hard Love e An Epic o quelle tipicamente
alternative country di 49er. Tutto gradevole eppure indistinto dalla grande
offerta di genere: per queste lande una Neko Case è passata dieci anni fa e ha
lasciato segnali importanti, andando però oltre, mentre oggi Laura Veirs ne possiede
con più scioltezza i segreti. Emma Hill cerca la sua voce, ma finisce per annoiare,
tenendo la fiaccola di un tenero country un po' etereo (If the Gods, Sad
Again) che abbiamo consumato e assimilato oltre il lecito. (Fabio Cerbone)
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Cris Cuddy Best
Kept Secret (Cris
Cuddy 2014)
Americana
criscuddy.com |

Canadese di Toronto con patente americana, diciamo così, Cris Cuddy è un
veterano della scena folk nazionale, con un passato che affonda le radici negli
anni settanta, come membro di Jeremy Dormouse e Max Mouse and the Gorillas, ma
soprattutto titolare di una decina di lavori solisti che lo hanno visto collaborare
con personaggi del giro alternative-country, tra i quali Andrew Hardin (Tom Russell)
Fats Kaplin (Jack White) e George Bradfute. È volato spesso anche a Nashville
per catturare una parte dello spirito della sua musica, che è quanto di più classico
si possa immaginare nel novero del country folk d'autore. Lo dimostra anche The
Best kept Secret, album pregevole nella sua veste tradizionalista e ligio
al dovere di omaggiare i linguaggi più conosciuti della canzone americana. In
prevalenza acustico, inciso con l'ausilio di una quindicina di musicisti, sfiora
ballate romantiche e dall'aria jazzy come Amy, si avventura in territori
bluegrass con The IBMA Blues e soffia melodie dal confine con accenti country&western
(Passing Through, Got a Brand New Heartache, Drive Thru Daiquiri
Bar, con l'accordion di Steve Conn, la dolcissima She Reminded Me of You),
fino a rinfrescare la memoria rockabilly nella stessa The Best Kept Secret,
un piccolo diversivo in scaletta. Attenzione particolare alle storie, voce confortevole,
clima pacato: ricadiamo, se volete, nelle regole di tutti questi dischi di genere,
poco propensi a rischiare, ma anche inattaccabili da un punto di vista formale.
(Fabio Cerbone)
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Piccolo trattato del "buon disco" di Americana, facendosi
largo tra diverse tradizioni musicali, Orphans & Relics ha tutti
i pregi e i difetti dei tanti, pur diligenti e talentuosi, songwriter che affollano
questo mondo. Nelson Wright lo ha registrato su un due piste ai Prairie
Sun Studio in California, con la collaborazione Micheal Thomas Connolly (nelle
sue mani gran parte della strumentazione) e la presenza di pochi selezionati musicisti.
È un album che parte acustico e poetico con il suono rurale di Miller's Wheel
e si fa strada tra ballate elettriche (Orphans of the Past), country blues
degno di una serata in una coffee house (Mama It Will Surely Do) e siparietti
da "bei tempi andati" nel clarinetto dai colori swing di Who's Folling Who,
il rockabilly stile Johnny cash alla Sun records di Falling Out of Something
e il blues canonico di Ten O'Clock Blues. Sei tracce e abbiamo già fatto
il giro dell'enciclopedia musicale americana. Manca però qualcosa che si spinga
oltre la bella calligrafia. Wright, oggi di stanza a Seattle, non è un novellino:
arriva dalla scena folk newyorkese, ha militato in numerosi progetti e con il
precedente Still Burning si è aperto una breccia nel pubblico Americana. Ciò non
toglie che la stringata sintesi (nove brani, una mezz'ora e poco più di musica)
di Orphans & Relics non cada lontano dalle sue rigide fascinazioni per il passato,
compresa una In Another Lifetime dalle morbide tinte jazzy che piacerebbe
a Willie Nelson. (Davide Albini)
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Spike
Flynn
Rough Landing (Spike
Flynn 2014)
country,
folk blues spikeflynn.com |
 In
una confezione digipak curatissima, con libretto, testi e uno sfondo da landa
deserta australiana, arriva il nuovo lavoro di Spike Flynn, voce indipendente
della scena roots nazionale, oggi residente a Sidney e molto apprezzato nei piccoli
pub cittadini. Un musicista di lungo corso, che per anni ha tuttavia abbandonato
l'attività discografica, tornando nel 2010 con It's Alright, album che lo ha rimesso
al centro delle attenzioni con un tour e qualche recensione anche a livello internazionale.
Rough Landing prosegue questa rinascita, confermando la genuinità
del gesto country e folk blues di Flynn, una voce roca e magari poco appariscente,
ma che pesca a piene mani dalla lunga tradizione dei folksinger. Le linee guida
di brani quali Trying to Get Home Blues, All You Lonesome Hobos,
Re-Incarnation Train Whistle Blues - e basterebbero anche i titoli - sono
quelle di una ballata dai sapori roots che guarda a Ramblin' Jack Elliott, a Guy
Clark, un suono spartano e rustico che poco inventa e si attiene di più alla concretezza
delle storie. Un violino o un tocco di banjo in Small Town Refugee e Frozen
Words (Neon Lit Cafe no.2) e l'aria si fa dolcemente country, qualche volta
si punta verso le dodici battute del blues (Ragin' Against the Wind), più
in generale si mantiene la rotta salda verso lo storytelling di nobile stirpe.
Spike Flynn offre il gusto naturale e semplice di una musica antica, non è un
fuoriclasse e si sarà capito, ma sa come tenere in piedi una buona canzone. (Fabio
Cerbone)
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Cej
Sleepwalker
in Paradise
(Gnosong
Records 2013)
folk blues, folk pop cejsongs.com |

L'intricato, elegante picking acustico di Honolulu
Lulu è figlio legittimo di Jorma Kaukonen e di un folk blues cristallino che
dice molto del personaggio Cej, all'anagrafe Carl Johnson, chitarrista
californiano che ha legato le sue fortune soprattutto alla band di Joel Rafael
(ricordate i suoi tributi alla musica di Woody Guthrie?). Ci troviamo dunque nel
giro West Coast d'autore (l'album è stato registrato a San Diego), anche se Cej
vanta un personale curriculum in formazioni di secondo piano, tra cui Small Talk,
Rock Rose e altre realtà che lo hanno portato ad incidere per diverse major discografiche.
Di fatto Sleepwalker in Paradise è il suo esordio in solitaria e
mette in chiaro la raffinata fattura del songwriting, che dalle abilità strumentali
svelate nella citata Honolulu Lulu (poi ripresa nel finale) si sposta nelle direzioni
opposte delle radici country blues (My Baby Knows, sulla falsariga di un
Kelly Joe Phelps) e di una forma di ballata acustica dalle ammalianti atmosfere
jazzy e pop, che tocca i suoi vertici in New Old Friend e nella stessa
title track, tra gli episodi più rotondi del disco. In altri frangenti e in special
modo nella parte centrale Sleepwalker in Paradise abbraccia un sound affabile
e morbido, che nella cesellatura degli arrangiamenti (dobro e steel guitar che
si affiancano a violini e violoncelli) evoca certo romanticismo folk pop degno
di James Taylor (Filling Up the Moon, Little One). Brezze californiane
d'antan e molta classe. (Fabio Cerbone)
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Aggieland
You Make My Day (Aggieland
2014)
Americana,
folk rock aggieland.nl |
 La
terra musicale di Aggieland è ravvivata dalle liriche di Aggie de Kruijf
e dalle chitarre di Stephan Jankowski. Sono loro, coppia di musicisti olandesi
di Eindhoven, gli animatori principali di questo progetto artistico giunto al
terzo capitolo discografico grazie a You Make my Day. Dodici brani
che ballano su un filo delicato tra Americana, folk rock e un pizzico di soul
dettato dagli ottimi ricami dell'organo di Mike Roelofs, uno dei tanti sconosciuti
musicisti locali che arrichiscono gli arrangiamenti del duo, portando a termine
una produzione di tutto rispetto. Nulla che esca fuori dai binari della tradizione
e di una scena roots europea, nello specifico quella dei Paesi Bassi, che ha già
ampiamente dimostrato di essere di qualità. La morbida vocalità pop di Aggie de
Kruijf accompagna le sue riflessioni ed esperienze sentimentali con uno stile
melodico e di chiara matrice folk, che non disdegna i vivaci colori della stessa
You make my Day e Springstime, viaggiando con trasporto verso i
ricordi della West Coast (il sax d'altri tempi che accompagna Friend of Mine
arriva da quella stagione, così come le percussioni accennate e i delicati
svolazzi di piano elettrico di Change) e più in generale di uno stile che
oserei definire Americana al velluto (Don't Say You Love me, You Got
to Walk That Lonesome Valley), fino alla chiusura con l'evocativa Southern
Sunday. (Davide Albini)
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