L'odore di pioggia sale dall'asfalto cittadino, la notte si anima di personaggi
ambigui e le strade sono inondate da un romanticismo decadente. E' solo
a quest'ora che fanno capolino le ballate sanguinanti di Jesse Malin,
un rocker che sinceramente ci mancava da tempo, un ribelle che potrà
anche atteggiarsi con pose da teppista (e il suo passato punk nei D-Generation
ne è la testimonianza più sincera), ma con The Heat
reclama un posto tutto speciale nel giovane rock d'autore americano. Con
buona pace di chi continuerà imperterrito a segnalarlo come l'inseparabile
discepolo dell'amico Ryan Adams. Un bel guaio per Jesse, soprattutto
quando la pigrizia di certa critica ti appiccica un'etichetta destinata
a durare una vita. Forse non basterà nemmeno un disco trionfalmente
rock e grondante di elettricità come questo per zittire gli scettici.
Eppure Jesse Malin cammina ora con le sue gambe, si produce da solo e
lascia sfogare Adams solamente in qualche parte di chitarra. Il resto
è rimesso completamente nel suo fervore da poeta maledetto, rocker
urbano per eccellenza che ha rubato la voce stridula a Neil young, le
chitarre ai Replacements, la crudeltà descrittiva a Lou Reed e
un pizzico di passione alle backstreets di Springsteen (che, guarda
caso, colpito dal talento del ragazzo, lo ha invitato a duettare in una
recente esibizione). The Heat non stravolge le regole rispetto al già
positivo esordio The
Fine Art of Self-Destruction, confermando tra l'altro gran
parte di quella squadra vincente (ci sono ancora Johnny Pisano, Paul Garisto,
Joe McGinty, più le comparse di svariati chitarristi e la
coppia d'oro Ryan Adams-Pete Yorn), ma suona assai più convinto
e unitario, un cascata di ballate elettriche che si collocano a metà
strada tra un rock adulto e mainstream e rigurgiti di punk-rock newyorkese.
L'unione riesce a meraviglia in Mona Lisa, emblematica dello stile
strascicato di Malin, con un gran sferragliare di chitarre sullo sfondo.
Orizzonti urbani e grande freddo nella struggente Silver Manhattan,
attraversata da riverberi e stridori con un piano sullo sfondo, e in God's
Lonely People; intimità acustica in Going Out West;
languide tenerezze con Block Island e Basement Home (un
violoncello fa la sua comparsa). Non si perde però in facile malinconia
il nuovo Jesse Malin: si lancia invece in torrenziali crescendo elettrici
(Arrested, New World Order) scalda le valvole al limite
nello squadrato rock'n'roll di Scars of Love e Hotel Columbia,
sorpassa il mentore Adams nelle sottigliezze melodiche di Abou You.
Malin è un cowboy nascosto sotto le fattezze di un nero giubbotto
di pelle, un balladeer che sposa Springsteen e i Clash come qualcuno ha
scritto. Gli riesce tutto facile in The Heat, e questo succede solo quando
il songwriting è in stato di grazia
(Fabio Cerbone)
www.jessemalin.com
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