James McMurtry - Live in Aught-Three Compadre/IRD 2004
 

In un certo senso, si può dire che James McMurtry assomigli molto a suo padre, il rinomato romanziere texano Larry. Come lui, infatti, ha costruito una carriera all'insegna di poche, fondamentali coordinate, tornando costantemente sui propri passi e sulle proprie scelte con l'intenzione di scremare, restaurare, aggiornare quanto già espresso in precedenza. Diversamente dal genitore, però, mi pare che non sempre James sia riuscito a rendere interessanti i piccoli aggiustamenti di rotta del proprio stile, anzi. A partire da It Had To Happen (1997) i suoi album - parere del tutto personale - hanno smesso di palesare caratteristiche davvero interessanti in termini di suono o scrittura, senza contare il fatto che, rispetto all'heartland-rock tagliente e stradaiolo degli esordi, l'impatto delle canzoni è andato via via facendosi sempre più monocorde. Trovo per esempio assurdo che, nel primo live della carriera, sia stato omesso qualsiasi accenno allo splendido Candyland ('92), disco considerato da molti (ivi compreso il sottoscritto) quale zenith nell'ispirazione dell'artista, o che il superbo esordio Too Long In The Wasteland ('89) venga ricordato soltanto con una pur felicissima, rabbiosa, dilatata versione dell'omonima title-track. Dal discreto Where'd You Hide The Body ('95) arrivano invece versioni piuttosto scolastiche della classica Levelland e della meno nota Rachel's Song, mentre il resto appartiene in toto agli ultimi tre album. Al di là del piacere di ascoltare qualche velenosa invettiva anti-Bush, il guitar-rock degli Heartless Bastards - Darren Hees (batteria), Ronnie Johnson (basso), Tim Holt (responsabile del mixer) - procede piuttosto ordinario e verboso, talvolta efficace nel condurre le danze attraverso un drive di ottusa rocciosità (si ascolti la potente rilettura di Out Here In The Middle), talvolta di sconsolante piattezza. Più che al John Mellencamp della fase più roots, come spesso si è sottolineato, la musica di James McMurtry sembra ora del tutto apparentabile a quella di un Lou Reed cresciuto magari nel Midwest invece che a New York: stesse basi percussive, stesso nervosismo della sezione ritmica, stesso cantato assai vicino al talkin' e alla declamazione pura e semplice. L'inedita Lights Of Cheyenne, infine, lancia incoraggianti segnali di ripresa, eppure… Eppure manca quel quid di originalità, manca lo scatto bruciante, manca l'intuizione definitiva capace di trasformare un onesto disco live in cui i minutaggi delle canzoni sono in pratica identici a quelli delle takes da studio in un prodotto per il quale spendere la parola imperdibile. Con quel che costano i dischi, un sostantivo da usare con assoluta parsimonia.
(Gianfranco Callieri)

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