In un certo senso, si può dire che James McMurtry assomigli molto
a suo padre, il rinomato romanziere texano Larry. Come lui, infatti, ha
costruito una carriera all'insegna di poche, fondamentali coordinate,
tornando costantemente sui propri passi e sulle proprie scelte con l'intenzione
di scremare, restaurare, aggiornare quanto già espresso in precedenza.
Diversamente dal genitore, però, mi pare che non sempre James sia riuscito
a rendere interessanti i piccoli aggiustamenti di rotta del proprio stile,
anzi. A partire da It Had To Happen (1997) i suoi album - parere del tutto
personale - hanno smesso di palesare caratteristiche davvero interessanti
in termini di suono o scrittura, senza contare il fatto che, rispetto
all'heartland-rock tagliente e stradaiolo degli esordi, l'impatto delle
canzoni è andato via via facendosi sempre più monocorde. Trovo per esempio
assurdo che, nel primo live della carriera, sia stato omesso qualsiasi
accenno allo splendido Candyland ('92), disco considerato da molti (ivi
compreso il sottoscritto) quale zenith nell'ispirazione dell'artista,
o che il superbo esordio Too Long In The Wasteland ('89) venga
ricordato soltanto con una pur felicissima, rabbiosa, dilatata versione
dell'omonima title-track. Dal discreto Where'd You Hide The Body ('95)
arrivano invece versioni piuttosto scolastiche della classica Levelland
e della meno nota Rachel's Song, mentre il resto appartiene in
toto agli ultimi tre album. Al di là del piacere di ascoltare qualche
velenosa invettiva anti-Bush, il guitar-rock degli Heartless Bastards
- Darren Hees (batteria), Ronnie Johnson (basso), Tim
Holt (responsabile del mixer) - procede piuttosto ordinario e verboso,
talvolta efficace nel condurre le danze attraverso un drive di ottusa
rocciosità (si ascolti la potente rilettura di Out Here In The Middle),
talvolta di sconsolante piattezza. Più che al John Mellencamp della fase
più roots, come spesso si è sottolineato, la musica di James McMurtry
sembra ora del tutto apparentabile a quella di un Lou Reed cresciuto magari
nel Midwest invece che a New York: stesse basi percussive, stesso nervosismo
della sezione ritmica, stesso cantato assai vicino al talkin' e alla declamazione
pura e semplice. L'inedita Lights Of Cheyenne, infine, lancia incoraggianti
segnali di ripresa, eppure… Eppure manca quel quid di originalità, manca
lo scatto bruciante, manca l'intuizione definitiva capace di trasformare
un onesto disco live in cui i minutaggi delle canzoni sono in pratica
identici a quelli delle takes da studio in un prodotto per il quale spendere
la parola imperdibile. Con quel che costano i dischi, un sostantivo da
usare con assoluta parsimonia.
(Gianfranco Callieri)
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