Two Gallants - What The Toll Tells  Saddle Creek 2006 1/2
inserito 06/03/2006
All'inizio del disco c'è una breve intro strumentale che fa pensare all'ennesimo omaggio, sulla scia dei Calexico, alle atmosfere western di Ennio Morricone e Sergio Leone, ma appena la prima canzone prende corpo le incertezze sembrano dissolversi in un istante: i Two Gallants, da San Francisco, sono troppo selvaggi, irruenti, frenetici e urgenti per apparire in una qualsiasi colonna sonora. A dire il vero, durante lo svolgimento di What The Toll Tells i riferimenti all'immaginario della frontiera e dell'ovest nordamericano, con annesse frequenti scappatelle in Messico, si sprecano, eppure non c'è una sola nota, qui, che possa essere definita "tradizionalista", neppure in senso lato. Non si può parlare di tradizionalismo perché, come già detto, l'attitudine del gruppo (al secondo album dopo l'esordio di due anni fa) è talmente brutale da scardinare il concetto stesso di classicità o di pulizia del suono. Anche se in certi momenti sembra di ascoltare una versione ispano-americana e ancor più bevuta dei Pogues, i Two Gallants non sono certamente il solito gruppo lo-fi, perché se è pur vero che sono capaci di produrre tonnellate di energia, è altrettanto indubitabile che il romanticismo scorticato di alcune ballate dice di un songwriting di qualità superiore alla media. Mi riferisco al lamento animalesco di episodi come Some Slender Rest o Threnody, posizionabili da qualche parte tra la raucedine di Bob Dylan e le canzoni d'amore arruffate di Paul Westerberg, ma anche alle viscerali randellate hard dell'epica Waves Of Grain, che sono poi le occasioni in cui il mix di alienazione, rabbia e disperazione espresso dalle grida belluine del cantante Adam Stephens (intendiamoci: questo non canta, urla) ottiene i risultati più ragguardevoli. Il lancinante punk-rock-roots di Stephens e del sodale e batterista Tyler Vogel (ovverosia lo zoccolo duro del gruppo, nel libretto ribattezzatisi, chissà perché, Chelsea Jackson e Auggie Washington), talvolta appena ingentilito dal violino di Jackie Perez Gratz e dai fiati dei fratelli Alberto e Antonio Cuéllar (rispettivamente tromba e trombone su 16th Street Dozens), non è certamente per tutti i gusti: se però ad un primo approccio può sconcertare, ascolto dopo ascolto rivela sfumature inaspettate. Il mio consiglio è quello di abbandonarsi senza troppi pensieri al blues feroce dell'obliqua Steady Rollin', al trionfo di efferatezze della furibonda Long Summer Day e alle bordate devastanti di Age Of Assassins: canzoni che molti giudicheranno intrise di troppa violenza gratuita, ma che in fondo non rappresentano altro se non una lettura iperrealista e aggressiva di tutto quello che siamo soliti definire "Americana".
(Gianfranco Callieri)

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