Avevo lasciato Clarence Bucaro ai tempi del rustico esordio Sweet
Corn (2002) e dell'appena più rifinito successore (Sense Of Light, '04),
ma era accaduto tutto senza alcuna acrimonia. Solo che talvolta è difficile
persino seguire le cose che piacciono, e a me il country-blues romantico
e profumato di Louisiana del nostro non dispiaceva affatto. Mi sono quindi
perso 'Til Spring, dello scorso anno, e forse è stato meglio così, poiché
Bucaro lo dice ispirato soprattutto dai libri di John Fante e dal Bill
Evans indimenticabile di You Must Believe In Spring ('81), il malinconico,
struggente capolavoro, pubblicato post-mortem, con cui il pianista del
New Jersey si accomiatò dal sodalizio col contrabbassista Eddie Gomez,
e io in questi casi avverto un doppio sentore di fregatura: quella di
chi, consapevole di proporre qualcosa di creativamente gracile, parte
subito alla ricerca di improbabili ascendenti artistici che ne cammuffino
la povertà d'ispirazione, e quella di chi, solitamente non sapendo che
pesci pigliare, straparla a casaccio di influenze jazz nel contesto della
canzone d'autore, neanche bastassero un vibrafono e un sax per saltare
da una staccionata all'altra.
Considerazioni pedanti e inutili, da nerd irrecuperabile, perché con ogni
probabilità non avrei trovato altro, in 'Til Spring, che un gemello di
questo nuovo New Orleans, cioè un album gradevole, piacevolissimo
all'ascolto, senza una nota fuori posto, preciso e affettuoso nell'allineare
tutti i propri modelli di riferimento (che vanno dal Van Morrison di fine
'70 a Stevie Wonder, passando per Rickie Lee Jones) eppure irrimediabilmente
sbiadito rispetto ad essi. La New Orleans cantata da Bucaro, beninteso,
non è quella magica, visionaria e festaiola raccontata da Neville Brothers
o Dr John. E' una citta in prevalenza bianca e composta, nonostante il
bassotuba di Kirk Joseph rimandi talvolta all'energia delle marching-bands,
più adatta ai tepori raccolti del pomeriggio che alle scorrerie della
notte, dove il blues e il ragtime sono per lo più un ricordo avvolto nel
calore di un B3 (l'ottimo Mike Burkart) che non può non riportare alla
mente il Jackson Browne che tardava l'appuntamento col cielo.
Produce, coi guanti di velluto, un giovane custode delle tradizioni del
posto, Anders Osborne, ma viene da pensare che, oltre a un suono
di nitore spettacolare, in cui ogni strumento risuona di una bellezza
irresistibile, avrebbe fatto bene a portare in dote anche un po' del pepe
di cui sono ampiamente spruzzati i suoi dischi, persino quelli più intimisti.
Detto questo, i brani più convincenti di New Orleans sono proprio i più
spartani, ovvero It's Only You Tonight e
Abandoned Mine, per chitarra acustica
(e una spolverata di organo) la prima e per pianoforte la seconda, entrambe
molto vicine alla spoglia espressività dei primi album di Clarence Bucaro.
Che resta un bravo musicista e un discreto scrittore, questo sì, anche
se nello stesso ambito (quello poco frequentato dove s'incontrano il folk
di Terry Callier e il soul di Bill Withers, la delicatezza di James Taylor
e l'inquietudine di David Crosby) deve vedersela con un tizio che sta
su un altro pianeta e si chiama Amos Lee. (Gianfranco Callieri)