Difficile dire se sia ancora uno dei "segreti meglio nascosti della Scozia",
anche perchè il talento di Roddy Hart da queste parti lo abbiamo
riconosciuto e adottato al primo istante, da quando quel Bookmarks
del 2006 lo aveva proiettato tra le più belle scommesse del suono Americana
in terra europea. Il sostegno di Kris Kristofferson, che lo volle ad aprire
il suo tour inglese e lasciò un piccolo cameo vocale nell'esordio
appena citato, così come le collaborazioni con la connazionale Eddie Reader
e il duro lavorio in qualità di supporter per Ray LaMontagne e Teddy Thompson
fra gli altri, hanno se non altro aperto uno spiraglio internazionale
per questo ragazzo di Glasgow, tanto da ottenere un contratto americano
con la Compass. Sign Language anticipa ancora una volta
l'uscita per il solo mercato inglese (la locale Vertical records, di orientamento
folk), lasciando intuire però come i propositi di Roddy Hart siano ben
lungi dal chiudersi a riccio nel circuito locale.
È infatti un disco ambizioso e un po' sovrabbondante questo Sign Language,
che sulle prima potrà persino disilludere chi aveva visto nelle sue romantiche
ballate un anello di congiunzione fra l'epica di Springsteen, il folk
dei troubadour americani e il pop più maturo della terra anglosassone.
Meno istintivamente vicino a Josh Ritter insomma - per citare un compagno
di strada musicale - e più tentato dalla grandeur di certo pop rock contemporaneo,
il Roddy Hart del secondo capitolo combatte una battaglia con se stesso
e la sua ispirazione, proponendosi con un disco di passagio che contiene
comunque una manciata di maestose ballate, sufficienti a non far cadere
la sua stella. È la prima ideale facciata a smuovere le acque con un pop
rock più facilone e accattivante: il sound dei Lonesome Fire (Scott
Mackay, John Martin, Geoff Martyn e Graeme Neilson) traghetta Sign language
in un limbo rock più anonimo e prevedibile, dove potremmo persino scomodare
Travis, Coldplay e altri campioni dell'onda britannica di questi anni
per descrivere lo "struggimento" un po' furbesco di (You
Don't Know) What You Do To Me, il guitar pop luminoso di Send
A Message e Look At You Now,
addirittura troppo gigione in Dead Of The Night,
seppure trascinanti e nella media superiori a molto insignificante rumore
che fluttua nelle programmazioni radiofoniche di oggi.
Lo stesso Roddy Hart ha avuto l'onore di condurre per tre mesi una trasmissione
sulle frequenze della BBC scozzese. Da qui forse le sue legittime lusinghe,
che tuttavia scompaiono di fronte alla bellezza languida di Map
Of Your Heart e di una The Wilderness
sciolta nel suono della steel, cuore folk dell'autore. Il quale non avrà
uno slancio poetico particolarmente orginale, e neppure testi di eccezionale
spessore, ma sembra giocare con le emozioni e la voce come pochi altri.
È lo strappo finale o meglio l'intera seconda parte a risollevare le speranze:
basterebbe una incantevole Great Unknown
bagnata dalle acque soul della sezione fiati, un ponte che unisce Ryan
Adams e Van Morrison, ma c'è spazio anche per l'agrodolce The
Swimmer e il crescendo corale di Mercy
Boat, episodi nel complesso troppo brillanti per accantonare
frettolosamente il talento di Roddy Hart. (Fabio Cerbone)