Jamie
Hutchings
His Imagninary Choir
[Nonzero 2009]
Grazie ad una scrittura ricca di immaginazione, fra confusioni sentimentali
ed una predilezione per quelle relazioni umane che non riescono a trovare
una via di comunicazione tra loro, Jamie Hutchings è un altro esempio
di come i folksinger australiani riescano spesso ad unire confessioni
acustiche e candore pop meglio di molti colleghi americani più blasonati.
È una stirpe di cui concretamente fa parte anche un personaggio come Tim
Rogers, leader dei You Am I che accostiamo non a caso alla figura di Hutchings.
Entrambi infatti vantano carriere parallele e sfoghi in solitario: Hutchings
è da tempo al timone dei Bluebottle Kiss, rock band di Sidney che può
mostrare un discreto riscontro internazionale (tour di spalla a Beck e
Dinosaur Jr fra gli altri) pur senza avere ottenuto quei consensi che
difficilmente un gruppo australiano raggiunge fuori dai cofnini nazionali.
Quindici anni sulla strada, un contratto con la Murmur, sussidiaria locale
della Sony, un doppio album nel 2006 che mostrava l'eclettismo di Hutchings
e soci, eppure arriviamo a conoscere quest'ultimo attraverso il suo secondo
disco solista, His Imaginary Choir.
Altra vita, altra musica verrebbe da dire, perché Jamie Hutchings si riscopre
qui autore dalla vena più stralunata, annullando tentazioni elettriche
per abbracciare un folk dai lineamenti lo-fi e con una dolce vena pop
che sfiora elementi di psichedelia sixties. Indovinata soprattutto la
scelta di avvolgere la coperta acustica formata da chitarre e pianoforte
con un coro femminile imbambolato, conciliante, quasi zuccheroso, una
trovata ad effetto che rende ancora più stranite le atmosfere di Hurried
by Trouble e You Don't Dance,
quest'ultima un folk rock nitido che risplende nella melodia disegnata
dal piano. Nella ricetta musicale di His Imaginary Choir - disco che fa
dell'imperfezione e dei tentennamenti della voce di Hutchings un punto
di forza - ricadono anche trame ritmiche un po' esotiche (Indian
Ocean Virgin Show) che piacerebbero forse a Devendra Banhart,
ballate disadorne e un poco tormentate (il primo "singolo" estratto, Sir
I'm Going to have to Ask You To leave), paesaggi rarefatti
che coinvolgono persino una pedal steel (Jason Walker) e lontane eco country
(Nomads, Montgomery
on Central).
La direzione impressa di comune accordo con il produttore Tony Dupe
è dunque chiarissima: apparentemente spigolosa la musica di Jamie Hutchings
rivela in verità una ricchezza di spunti che va oltre la scarna ambientazione
folkie. La potenzialità pop di brani quali After
the Flood, la follia un po' psichedelica, quasi beatlesiana
di Flamethrower e del finale di Make
Me no Sense raccontano di un songwriter più complesso e talentuoso,
come peraltro testimoniano le sue stesse liriche. C'è un incanto e una
qualità in queste canzoni non così comune. (Fabio Cerbone)