Mark
Stuart and The Bastard Sons
Bend in the Road
[Dualtone
2009]
Esordio solista, o forse dovremmo dire quarto disco di studio, per Mark
Stuart, che non ha tagliato del tutto i ponti con il suo passato.
I Bastard Sons spiccano ancora nel titolo, mentre Johnny Cash è
rimasto in soffitta, ma poco male, è stato sostituito da un fuorilegge
se possibile ancora più pericoloso, Billy Joe Shaver, del quale Stuart
riprende il classico I'm Just an Old Chunk of
Coal. La canzone apre simbolicamente Bend in the Road:
non è infatti un caso fortuito che il nostro protagonosta abbia scelto
un campione del country texano per benedire il trasferimento dalla natia
West Coast ad Austin, luogo in cui il disco in questione è stato in parte
concepito e dove Mark Stuart ha ripreso i fili della sua carriera. Messi
in disparte gli effettivi Bastard Sons of Johnny Cash, dopola maturità
toccata con Mile
Markers, il cuore batte ancora per la strada, per l'amore,
per i sogni, insomma il solito apprezzabile, indistruttibile campionario
dell'american music che più smuove le nostre simpatie.
E se avete in serbo qualche cartuccia per un roots rock che sappia cogliere
tutti i differenti caratteri della tradizione, allora Bend in the road
non vi deluderà neppure per il suo contenuto strettamente musicale, qualcosa
che si avvicina come pochi altri dischi del 2009 al concetto di Americana.
Mark Stuart ha la sensibilità e la preparazione per affrontare un simile
compito: non si spiegherebbero altrimenti le colorazioni bluegrass di
Restless, Ramblin', Man e in generale
le tonalità acustiche e rootsy della stessa I'm Just an Old Chunk of
Coal, entrambe a spartirsi la scena fianco a fianco con il rutilare
elettrico di When Love Comes a Callin' e
di una Power of a Woman che macina
boogie e calore rock'n'roll come se i Blasters fossero ancora in attività.
Nessuna regola stravolta, solo canzoni rotonde e appassionate, con il
talento artigianale di riuscire a saltare di stile in stile senza perdere
un briciolo di convinzione. Merito anche dei musicisti certo, tra cui
le ospitate del basso di Taras Prodaniuk e dell'accordion di Phil Parlapiano
(sentitelo nell'affettuosa carezza dal border di Lonestar,
Lovestruck, Blues) e molti chitarristi al servizio della causa.
C'è bisogno di gente come Mark Stuart, se non altro per non perdere, quel
tanto che basta, il contatto con il senso più puro e sincero del fare
country music con sentimento. Fanno al caso nostro l'epica di Gone
Like a Raven fra pedal steel (Jd Mannes) e chitarre riverberate,
la sterzata honky tonk di Seven Miles to Memphis
(e tanti saluti a Chuck Berry) e la tappa sudista di Everything's
Goin' My Way (una slide e un granello di Little Feat fra le
note), e infine quel respiro stradaiolo che non ti togli di dosso se sei
un musicista cresciuto dentro una precisa mitologia rock (Fireflies
ma soprattutto Way Down the Road,
che sfoggia uno svolazzante organo). Il compito svolto di comune accordo
con Alan Mirikitani ha ripagato Mark Stuart degli anni spesi ad onorare
il nome di Johnny Cash. Ne andrebbe fiero anche lui. (Fabio Cerbone)