Ryan
Bingham & The Dead Horses Junky Star
[Lost
Highway/ Universal 2010]
Il giornalista sportivo Gianni Brera sosteneva che la passione italiota per
il calcio fosse dettata dal fatto che quello che accade in campo è esattamente
quello che succede nella vita di tutti. Oggi, che il calcio di Brera è morto e
sepolto con lui, sappiamo che anche lo schifo che accade fuori dal campo è ben
rappresentativo della vita del nostro paese, per cui ben facciamo noi ad occuparci
di altro. Ma per una volta concedeteci di ispirarci al buon Brera per capire come
mai il nostro giovane campione del momento (Ryan Bingham) si sia espresso
al meglio con un allenatore di serie B (il prode Marc Ford, ex Black Crowes, un
fuoriclasse della chitarra, quanto un produttore ancora alla ricerca di un proprio
marchio di fabbrica), piuttosto che sotto la guida del "Mourinho della roots music"
(l'iperattivo T-Bone Burnett). La risposta è calcistica: "squadra che vince
non si cambia", e allora visto che al duo Bingham-Burnett è bastata una sola canzone
per vincere addirittura un oscar (Weary Kind), logico aspettarsi l'album di rito.
Ma il risultato parla chiaro: Junky Star è un sofferto 1-0 d'inizio
stagione, strappato con i denti da una squadra portentosa, con una punta come
Bingham che dimostra anche in questo caso di essere l'unico nome davvero credibile
e riproponibile ad alti livelli (la stessa Junky Star
lo ribadisce subito, certi tiri riescono solo ai grandi talenti), e
un Burnett che fa sentire il suo peso come al solito.
Ma sempre Brera
insegna che i giocatori e gli allenatori possono anche essere bravi, ma una squadra
vincente nasce da una giusta alchimia e da una corretta combinazione di ruoli.
E così se Burnett quando allena Mellencamp fa meraviglie grazie alla sua tattica
di trincerarsi in un'area fatta di tradizione e suoni vintage (una sorta di reazionario
catenaccio), con Bingham si ritrova per le mani un giocatore meno duttile e poco
adatto al ruolo. Il problema infatti è che è lo stesso Ryan a non tenere la posizione
a lungo, perché se questo disco inizia con una grande azione difensiva (la riflessiva
The Poet) esattamente come succedeva in Mescalito,
il nostro fallisce il primo ribaltamento di campo con Strange
Feeling In The Air, brano che richiede una incisività a suon di slide-guitars
taglienti, ma che il buon T-Bone riesce invece a rendere evanescente e cervellotico.
E così, palesemente spaesato, il nostro campione temporeggia con un po' di melina
a centrocampo (il difficoltoso trittico Depression,
Hallelujah, Yesterday's
Blues), ma la dimensione acustica alla lunga (…e l'album è lungo…)
gli sta evidentemente stretta.
Finisce così che gli schemi saltano (Direction
In The Wind passa sulle strade del blues), l'allenatore gesticola a
bordocampo e saccheggia Lay My Head On The Rail sostituendo
i bistrattati Dead Horses con nulla, fino a quando la star reagisce e incorna
finalmente a rete con la tensione southern di Hard Worn
Trail. Ma è evidente che la vittoria è risicata, e che il nostro piccolo
campione avrebbe bisogno di dare più libertà al proprio estro per far risaltare
la bella scrittura del finale di Self-Righteous Wall
e All Choked Up Again, numeri che,
con un buon chitarrista solista a fare gli assist o un tastierista di esperienza
a tessere geometrie sulla mediana, avrebbero sicuramente generato una goleada. (Nicola Gervasini)