Prima generale prova d'orchestra per Megan Burtt e la sua band battezzata
The Cure of Love. La giovane cantautrice di Denver, Colorado, debutta sulla lunga
distanza dopo due Ep che le hanno portato una discreta fortuna, non soltanto a
livello locale: finalista al famoso Tellirude festival nel 2008 nonchè
premiata con varie nomination nei numerosi concorsi dedicati alle promesse del
songwriting americano, la sua stella potrebbe essere destinata a crescere. Con
un'ammissione al prestigioso college musicale di Berkley alle spalle e le credenziali
appena sciorinate sarebbe logico attendersi una imminente esplosione, che nondimeno
è tutta da conquistare (si veda la pubblicazioe indipendente), in un mercato
ormai inflazionato da rockeuse dall'animo fragile e dibattuto fra carezze pop
e pulsioni Americana. It Ain't Love, prodotto da Eddie Jackson (già
al lavoro con James Taylor) in una vecchia chiesa adattata a studio di registrazione,
conferma l'immagine carezzevole e il sound levigato dell'artista, che calpesta
il versante più gentile e ammansito del genere, mettendosi al riparo dietro
figure ormai affermate quali Kathleen Edwards e Brandi Carlile.
Sfruttando
le qualità strumentali della band (ottimi Adam Tressler alle chitarre e
James "Downtown" Williams alle percussioni) Megan Burtt vira dunque
dalle radici della sua scrittura, screziata di blues e dal portamento folk, smussando
gli angoli e provando a strizzare l'occhio ad un generico pop rock che ricorda
vagamente la recente svolta di Grace Potter, giusto per aggiungere un'altra affine
compagna di strada. Restando comunque dentro i confini di It Ain't Love e senza
fare torti al talento della Burrt, bisognerebbe quanto meno chiedersi perchè,
giunti alla fine della corsa, non rimangano in testa che sporadici accordi, piccole
intuizioni melodiche, una bella confezione che forse manca di una maggiore grinta,
di quel brio necessario per azzeccare una sola canzone memorabile: la piacevolmente
radiofonica Over Me e una più scura
Too Damn hard si avvicinano all'obiettivo,
ma il resto si ferma un passo prima, accontentandosi di un generico approccio
rock (Pay it Now, Habit,
la stessa It Ain't Love che ruggisce con
un riff bluesy e sensuale) quando non di un'unica lunga ballata dai colori autunnali,
che fa assomigliare l'intero repertorio.
Non sono di per sé episodi
disprezzabili, gli manca solamente un po' di sapore: nell'indagare le incomprensioni
e le difificoltà delle relazioni umane Megan Burtt mette in gioco tutta
se stessa, anche se il prezzo da pagare è chiaramente una sequenza troppo
piatta di struggenti rock ballad (Moves,
Other side of Lonely, quantunque interessante dal punto di vista
ritmico) e ingentilite folk song (Fix Your Need,
Waited for June, un finale per piano e archi
con One Wing). Sono avvolte in un involucro
prezioso, patinato, dove nessuno strumento suona fuori posto ( l'esperienza del
produttore sembra ricoprire qui un ruolo predominante) e tuttavia davvero poco
resta attaccato addosso all'ascolto anche più approfondito. (Fabio Cerbone)