inserito 28/06/2010

Deer Tick
The Black Dirt Sessions
[
Partisan  2010
]



Cercavamo conferme da questo terzo disco dei Deer Tick, sia positive per quanto sono riusciti a fare con i due album precedenti, ma anche negative magari, causa alcune nostre perplessità sul fatto che possano davvero diventare gli eredi dei Drive By Truckers nel segnare la via di un southern rock moderno, digeribile non solo dai rudi rockers nati a pane e Lynyrd Skynyrd. Invece The Black Dirty Sessions è un disco che si preannuncia discusso, discutibile, e farà probabilmente ancora discutere in futuro. Dimenticatevi Born on Flag Day dunque, quella era un'altra storia, e anche un po' un'altra band, visto che la chitarra solista di Andrew Grant Tobiassen che tanto era piaciuta non c'è più, e al suo posto è arrivato Ian O'Neil, acquistato dai Titus Andronicus nel corso di una tournèe comune. Ma questo cambio di guardia in questo caso non dovrebbe poi tanto pesare, perché molte di queste sporche sessioni provengono proprio dalle stesse sedute che hanno partorito il precedente disco, e questo non chiarire bene se l'ultimo sia da considerarsi un album di outtakes (il sound scarno e poco arrangiato sembrerebbe avvalorare la tesi) o il terzo album a tutti gli effetti della band non aiuta il giudizio.

In ogni caso questi brani sono stati assemblati con un preciso intento, quello di mostrare il lato più oscuro, intimista, e in parole semplice meno rock della band. Una scelta coraggiosa, arrivata proprio quando anche ripetersi gli avrebbe garantito forse ben più onori, e soprattutto pericolosamente dipendente dalla capacità del leader John J. McCauley III di rivelarsi un songwriter di prima categoria. L'onore al coraggio non salva però il disco dallo scadere nella noia, proprio perché alcune ballate acustiche come The Sad Sun o Twenty Miles non si reggono da sole sulle gambe, e quando provano la via della piano song crepuscolare (Goodbye Dear Friend o la finale Christ Jesus) trovano il sound ma non il tema immortale. Fallimento? Assolutamente no, perché il problema del disco è solo la fretta e l'aver magari tentato di battere terreni di folk sofferto (Hand In My Hand) che i Felice Brothers per esempio calpestano già con ben altri risultati (o addirittura I Will Not Be Myself ricorda gli Alice In Chains più tormentati).

Ma qui e là le canzoni che giustificano il loro successo ci sono, vanno trovate nelle scarne trame folk di Piece by Piece and Frame by Frame, nella ballata When She Comes Home e nel bellissimo crescendo in pure stile southern-rock band di Mange. Per il resto ci mettono passione, ma anche molto mestiere (Blood Moon sa un po' di blues notturno scritto con un manuale), e alla fine la sensazione è che questo deciso spostare il baricentro della loro musica verso un mood da indie-rocker penalizza quel bell'impatto da vera band dimostrato in precedenza. Si prendano il giusto tempo ora, è probabile che qualcuno troverà splendide queste invocazioni spirituali (sentire Choir Of Angels per credere), ma è molto più probabile che quest'album raffredderà gli entusiasmi. Meglio così, fra qualche anno sapremo se era destino che si perdessero o se stavano solo scaldando i motori.
(Nicola Gervasini)

www.deertickmusic.com
www.myspace.com/deertick



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