inserito 01/07/2010

Alejandro Escovedo
Street Songs of Love
[
Concord/ Fantasy 
2010]



"Devi avere fede / in quello che sta sopra di te / Talvolta devi perderla / Per trovarla di nuovo": e se lo dice il texano Alejandro Escovedo, in una pestatissima Faith dove anche la voce dell'ospite Bruce Springsteen torna a essere abrasiva e sconquassante come se dovesse sbranarsi il microfono, possiamo star certi che non si tratta del solito luogo comune. Perché Escovedo è uno che sul palco, oltre ad averci passato la vita, ha pure vomitato sangue: successe durante un'esibizione del 2003, e la diagnosi fu inappellabile. Epatite C. All'epoca si mobilitò mezza Austin, nonché l'intero spettro della canzone d'autore americana, per mettere in piedi un tribute-album (Por Vida) che raccogliesse qualche fondo a sostegno delle costosissime cure. Ma al di là dell'affetto degli amici, al di là della passione dei fans e al di là dell'interessamento dei semplici conoscenti, Escovedo può ben dire di esserne uscito sulle proprie gambe, andando quindi a ingrossare le fila di tutti quelli cui il rock'n'roll ha salvato la vita in senso non soltanto metaforico. Pensateci: il magazine No Depression, vera e propria bibbia dell rinascimento rootsy dei primi '90, sul far del nuovo millennio l'aveva già definito "artist of the decade", sicché il nostro avrebbe potuto campar di rendita tramite pensosi medaglioni folk che avessero continuato a manifestarne il lato più agreste e legato alla tradizione. Nessuno si sarebbe risentito, e oggi avremmo probabilmente accolto i suoi nuovi lavori con l'indulgenza che si riserva a quei tromboni incanutiti che hanno svolto un ruolo insostituibile nel codificare certi tipi di linguaggio e oggi appaiono soffocati in un eterno ritorno al passato.

E invece Escovedo, dopo la malattia, non ha fatto altro se non buttare a mare tutti quegli elementi - l'approccio "cameristico" e orchestrale al roots-rock, gli addentellati con le radici ispaniche, le traiettorie di avvicinamento al country - che gli avevano garantito una certa notorietà, seppur di nicchia, per riprendere a occuparsi di quel rock'n'roll urbano, stradaiolo, punkeggiante, sporco di glam e infarcito di riff assassini che aveva contraddistinto (in forma infinitamente meno compiuta) i suoi esordi alla guida dei Nuns. Ha reclutato un produttore quale Tony Visconti (David Bowie, Thin Lizzy, T. Rex etc.), s'è messo a scrivere canzoni con l'ex Green On Red Chuck Prophet (il miglior chitarrista della sua generazione e un altro che quando si tratta di comporre selvaggi baccanali stonesiani ha pochi rivali), ha messo in piedi i suoi Sensitive Boys (David Pulkingham, Hector Munoz e Bobby Daniels) e ha deciso di comportarsi come se New York Dolls e Mott The Hoople fossero gli unici gruppi da portarsi nella tomba. Real Animal, primo album di questo nuovo corso dopo l'interlocutorio The Boxing Mirror ('06), contrassegnava un'esplosione di punk-rock "d'autore" col santino di Stooges e Springsteen nella tasca dei jeans, ma assomigliava pur sempre al prodotto di un songwriter in cerca di nuove direzioni. Street Songs Of Love, ancora una volta con Visconti, Prophet e i Sensitive Boys a bordo, suona più compatto e devastante, ancor più "old-school": nelle parole del titolare stesso, il "disco di una band" e non l'estensione di uno screening solista sui propri amori di gioventù. Che pure compaiono; anzi, uno di essi, quell'immarcescibile Ian Hunter che a 71 anni è molto più in forma di quanto io e voi possiamo mai esserlo stati a 15, è addirittura corresponsabile dell'episodio migliore del disco, una Down In The Bowery che fin dal titolo ricorda le rock-ballads arruffate e sanguinanti di Johnny Thunders, Nikki Sudden o David Johansen e, nel raccontare delle preoccupazioni di un padre circa il percorso interiore di un figlio confuso, accende i riflettori su quel rock newyorchese pieno di cuore e cicatrici che più o meno tutti, negli ultimi tempi, sembrano aver dimenticato.

Solo il più memorabile, ad ogni modo, tra i tanti brani travolgenti di un disco che si inchioda in testa dalla prima all'ultima nota, dal rifferama di rock'n'roll anni '50 in chiave pop-punk dell'iniziale Anchor ("If your love was a ship / I'd pull your anchor and christen it / I'm in love with love / And it broke me in two": Frankie Ford incontra le Runaways?) alla violentissima tracimazione funk della title-track, da una Fall Apart With You provvista della malinconica dolcezza di un Johnny Rivers corretto dal taglio nostalgico di Sylvain Sylvain ("Mi ha detto che il suo primo amore è stato anche l'ultimo / ed ecco perché piange, quando ascolta Johnny Cash") al fulminante anthem rockinrollistico di una Undesired dedicata a tutti i magnifici rottami del mondo (così li avrebbe chiamati Willie Nile, che della canzone è il referente stilistico più attendibile), dallo Sprigsteen scartavetrato di Faith fino alla panacea strumentale di una Fort Worth Blue che chiude evocando paesaggi western e orizzonti di frontiera. Street Songs Of Love è un disco autobiografico. Racconta in modo assolutamente fedele, Escovedo dixit, delle vicissitudini sentimentali attraversate dal suo autore negli ultimi due anni. Per quanto riguarda i rapporti con l'altro sesso, non so dirvi nulla. Ma per quanto riguarda la musica, ovvero una "vicissitudine sentimentale" di pari importanza, be', sappiate che il disco racchiude ciò che gli U2, dieci anni fa, soprannominarono "all that you can't leave behind", tutto quel che non puoi lasciarsi alle spalle.

Con Street Songs Of Love, Alejandro Escovedo afferma chiaro e forte che dal rock di strada, dai fendenti di una sei corde mulinata alla stregua di una spada pronta per mietere vittime, dal romanticismo sconfitto di quei pazzoidi che si ostinano a cercare la loro luna nella caligine di un vicolo non sa o non vuole prescindere. Figuratevi noi.
(Gianfranco Callieri)


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