Nel nome (e ancor più nel titolo del disco) si cela qualcosa di sinistro,
una doppiezza, un'immagine ambigua che sta alla base della musica stessa di Lee
Harvey Osmond, non un nuovo songwriter bensì un collettivo di musicisti canadesi
con cui più volte abbiamo incrociato le nostre passioni. Da una parte la voce
sussurrata, il talkin' affabile e sensuale di Tom Wilson (Junkhouse, Blackie
and the Rodeo Kings), dall'altra il cuore dei Cowboy junkies con i fratelli Margo
(diversi camei vocali e uno spledido duetto in scaletta) e Micheal Timmins,
quest'ultimo chiamato ad agitare la acque chete di A Quiet Evil
con gli inserti in odore di psichedelia delle sue chitarre. Sono i protagonisti
più vistosi, perché in verità Lee Harvey Osmond si trasforma un cantiere aperto,
arrivando a diciasette attori più o meno principali (tra i tanti ci sono Colin
Linden al dobro, Peter Timmins alla batteria, l'ottimo Aaron Goldstein alla pedal
steel), mai così timidi, fin quasi nascosti dietro le note di un disco che fa
esattamente della sottrazione, dell'intimità, della ricerca del groove e del suono
rarefatto una sua regola ferrea. Stando di casa i Cowboy Junkies non dovremmo
sorprenderci più di tanto di questa formula, anche se la loro presenza è piuttosto
una suggestione, poiché Tom Wilson sembra prevalere fra i chiaroscuri di A Quiet
Evil come vero mattattore di un disco sorprendente.
Pubblicato quasi
in sordina a livello indipendente lo scorso anno per la Latent dei fratelli Timmins,
l'album approda questa primavera ad una giustificata distribuzione europea: una
gestazione lunga due anni (le registrazioni risalgono al 2008) che porta allo
scoperto un progetto affascinante, un arricchimento del viaggio sonoro più volte
affrontato da questi musicisti. La chiusura con una potente, acida versione di
I Can't Stand It dei Velvet Underground idealmente
si ricollega a quella indimenticata Sweet Jane che svettava in Trinity Sessions.
Soltanto un richiamo, forse un gioco, perché il magnetismo di A Queit Evil risiede
tutto nelle sue cadenze un po' "malate", in testi che sembrano affrontare con
malizia, quasi con lascivia il folle mondo che ci circonda: Lee Harvey Oswald
(quello vero) è dietro l'angolo in Parkland;
Blade of Glass tira in ballo un altro assassinio
mentre le voci della band sembrano volerci tranquillizzare, una carezza prima
della morte. Lucifer's Blues appunto, come
narra Tom Wilson nella cover di David Wiffen, un groviglio di bisbigli e percussioni.
A Quiet Evil si muove su questo doppio binario di carnalità e eterea
sospensione, mettendo insieme acid folk e contagiosa soul music (Cuckoo's
Nest), rock dalle tinte desertiche (The Love
of One pare uscire da una session perduta in quel di Tucson con i Calexico),
psichedelia morbida e flessuosa (la citata Blade of Glass) e ballate che
allentano le briglie sciogliendo il country in un mare di nostalgia e torpore
(la splendida I'm Going to Stay That Way in
coppia con Margo Timmins, la marcetta irresistibile di Queen
Bee). Un disco in fondo scarno e semplce che sfodera stile, immaginazione
e contenuto al tempo stesso, e che insegna come gettarsi sul corpo della tradizione
catturandone in qualche modo i misteri fra le estremità e i ritmi della wilderness
americana. (Fabio Cerbone)