È arrivato il momento dei ricordi e del raccolto anche per Dave Alvin,
venticinque anni di carriera o quasi in solitaria nel dopo Blasters, che si confrontano
con storie passate, amici perduti e ritrovati, mitologia di uno spirito rock'n'roll
che non la ha mai abbandonato. Eleven Eleven è un disco che suona
familiare per contratto, ma non sbiadisce in un semplice amarcord: per la prima
volta vede coinvolti attivamente membri dei Blasters in una sua opera solista,
richiamando persino l'amico-nemico Phil Alvin, fratello di mille scorribande
con cui finalmente Dave ironizza e trova il tempo di scherzare nella godereccia
riunione di What's Up With Your Brother?,
musicalmente però uno degli episodi più "banali" dell'abum. C'è anche il piano
boogie di Gene Taylor a spargere semi rockabilly e gioia di suonare, mentre le
altre facce del quadro le abbiamo incrociate più volte, se avete avuto la pazienza
di seguire Dave in queste stagioni, da Greg Leisz a Don Heffington, da Rick Shea
a Bob Glaub, per citare gli ospiti californiani più di riguardo. È un piccolo
sunto del roots rock di Los Angeles, così come Eleven Eleven è un concentrato
delle conquiste passate e presenti di Alvin, con quella convinzione e quella qualità
di repertorio che lo eleva rispetto alle più recenti uscite.
Accantonato
l'interessante ma poco risolto (per esiti artistici) connubio delle Guilty
Women, le chitarre tornano a ruggire, masticando la lingua del blues
più notturno e sordido in Harlan County Line,
racconto che profuma di leggenda americana (leggetevi nel caso il recente volume
di Allessandro Portelli per Donzelli, sulle lotte dei minatori nel Kentucky),
i ritmi alla Bo Diddley del singolo Run Conejo Run,
lo strimpellare da saloon di Gary, Indiana 1959,
altra evocazione di battaglie per il lavoro (questa volta nelle acciaierie). Sono
proprio le narrazioni che rendono il Dave Alvin del 2011 interessante e maturo
come autore, un poeta di strada si sarebbe detto un tempo, che ha trovato il giusto
equilibrio fra romanticismo (non gli è mai mancato e quando imbraccia l'acustica
diventa un maestro dell'Americana) e spacconate rock. Certo la sensazione che
Eleven Eleven sia una discreta sintesi del "già detto" non la allontana nessuno,
come se il ruggito rock blues di Ashgrove (il suo debutto in casa Yep Roc qualche
anno fa) si fosse incontrato con il lato più da folksinger degli anni di King
of California.
Dal primo approdano direttamente la ficcante Johnny
Ace is Dead, rievocazione di una delle più assurde tragedie conosciute
dal primo rock'n'roll, con un colpo di pistola che per uno stupido gioco finisce
nella testa della giovane promessa Ace, e ancora la citata Run Conejo Run o Dirty
Nightgown: voce sempre più baritonale, la chitarra che lancia riff
secchi e la band che segue il groove. Dal secondo tracciato invece spuntano le
vere gemme: la storia di dolore in Black Rose of Texas,
ballata da grandi orizzonti segnata da una slide guitar; la commovente border
song No Worries Mija, piano e accordion che
riportano davvero ai tempi gloriosi del "Re della California"; infine il duetto
con Christy McWilson in Manzanita, dolce celebrazione
di un amore giovanile di Dave mai dimenticato. Episodio a sé stante, forse un
po' fuori luogo nel contesto sonoro di Eleven Eleven, è invece la coda retro-jazzy
di Two Lucky Bums, ultimo brano registrato
da Dave con l'amico scomparso Chris Gaffney. Un omaggio, più che un errore,
che si può (si deve) assolutamente perdonare. (Fabio Cerbone)