Davanti ad Amos Lee probabilmente Michelangelo avrebbe perso la pazienza
e avrebbe urlato anche a lui il suo celeberrimo "perchè non parli?!", martellata
sul ginocchio inclusa. Meno espressivo di una statua di Mosè, ma certo non meno
di bella presenza, Lee è uno di quegli artisti che non sai mai quanto odiare o
amare. Lo ami per la perfezione sonora, per lo stile rigoroso che unisce soul
bianco e folk alla James Taylor, lo odi per l'eccessivo formalismo delle sue composizioni,
e per quel non lasciarsi mai andare e non concedere mai nulla di più delle sue
canzoni. Non si pretende certo che uno con il suo stile si metta a contorcersi
sul palco come un Iggy Pop, ma a volte un po' di composta ironia alla Lyle Lovett
avrebbe sicuramente giovato alla sua arte, piuttosto che alla sua seriosa immagine.
Avviluppato nella sua timidezza, non sappiamo quanto atteggiata, Lee aveva anche
perso qualche punto presso i critici all'indomani di un terzo album che ha venduto
pure bene negli States (ventinovesimo posto in Billboard, vette che alla maggior
parte degli artisti a noi cari sono proibite), ma che ha lasciato freddi i fans
più fedeli.
Giusto quindi prendersi una pausa di riflessione, se poi i
risultati sono quelli presentati in Mission Bell, che lasciamo a
voi il compito di decidere se sia il suo album migliore, ma con certezza vi diciamo
che comunque se la gioca per il titolo. Si parte bene fin dalle frequentazioni
scelte, su tutte la produzione affidata al Calexico Joey Burns, evidentissima
ad esempio nel blues desertico di Out Of The Cold
(brano che coinvolge anche Pieta Brown). E poi una serie di collaborazioni che
sondano il mondo indie (in Violin fanno capolino
i vocalizzi di Sam Beam), amicizie rodate (in Stay
With Me ancora una volta appare la bella Priscilla Ahn), nomi altisonanti
per le nostre lande (Lucinda Williams lo aiuta a irruvidire la paludosa Clear
Blues Sky), pezzi da 90 (il Willie Nelson che appare nella ripresa finale
di El Camino) o storici session man (il batterista
James Gadson, uno che ha suonato con il gotha della black music degli anni 70,
lo aiuta in Jesus, qualcosa di più di una
semplice gospel-song, nonché uno di quei momenti in cui ti sembra che anche per
lui sia possibile perdere le staffe).
Non tutto gira alla perfezione comunque,
quella che ai tempi del vinile sarebbe stata la prima parte affonda colpi senza
sbagliarne uno, con Windows Are Rolled Down e
Flower a dimostrare che anche da solo il
ragazzo sa come confezionare la canzone giusta. Nella seconda parte però torna
un po' quella cattiva abitudine di accontentarsi e non concedersi mai troppo che
lo porta a brani meno importanti come Learned A Lot
e Cup Of Sorrow. La produzione di Burns fa
la differenza, anche se forse lui avrebbe bisogno di uno di quei produttori stronzi
e debordanti che gli facciano tirar fuori le unghie a difesa della sua integrità
stilistica, e forse avremmo finalmente il suo vero grande disco, Ma anche così,
comunque, non ci lamentiamo. (Nicola Gervasini)