The
Breakers The Breakers
[Wicked
Cool Records 2011]
Adoro la Scandinavia,
soprattutto perché si suona ottima musica! Ho amato i fantastici Creeps, o gli
scatenati Stomach Mouths, e ancora oggi riascolto con piacere il rock di frontiera
dei Wayward Souls. Di recente da quelle terre sono emersi i Siena Root, i Little
Barrie e i Big Bang, mancava nei miei files la Danimarca, ed ecco che scopro questi
The Breakers. Al primo ascolto faccio un balzo dalla poltrona e me li sparo
a palla dallo stereo, un po' per ballare e soprattutto perché la loro freschezza
mi eccita tanto da correre sul web per cercare informazioni su questi strepitosi
danesi. The Breakers, originari di Copenaghen, sono Toke Nisted (voce), Anders
Bruus e Laus Hojbjerg (chitarre e organo), Jackie Larsen (basso) e Thomas Sotlsvig
(drums). Incidono per l'etichetta Wicked Cool Records sotto l'ala protettiva di
Steven Van Zandt, che produce questo omonimo lavoro scrivendo anche alcune
songs. Nati nel 2002 hanno già alle spalle due dischi : "What I Want" (2004) e
"Here for a Laugh" (2006), che anticipano, arrotando il tiro con centinaia di
concerti in Europa e negli Stati Uniti, questa ultima fatica, che a mio avviso
sarà il punto di partenza per una carriera ricca di soddisfazioni.
Il
disco parte subito con un brano, che già dal titolo dice tutto, Start
The Show, e dato che Little Steven li ha prodotti e fatti incidere
a New York, ecco venirmi in mente un gruppo newyorkese, i Fleshtones, che l'avrebbero
suonata ad occhi chiusi tanto assomiglia allo stile del loro repertorio. I vicini
mi richiamano alla compostezza e soprattutto ad abbassare il volume quando parte
The Jerry Lee Symptoms, potente hit single,
galoppante, quasi garage rock, molto sixties, irresistibile canzoncina, semplice
ma efficace. Cresce la mia eccitazione quando giungo al quarto pezzo Riot
Act, basso solido e riff chitarristico che richiama alla memoria tutto
il rock americano fine anni sessanta (Young Rascals, Turtles, Standells) ma pure
il punk inglese dei maturi Clash. If You Please
è la prima ballata del disco di chiara matrice Little Steven, che prende per mano
i Breakers quasi per insegnargli come si può essere tosti e trascinanti con tre
accordi. Ancora umore metropolitano della grande mela con New
York City, fino ad arrivare a Soulfire,
altra grande canzone dell'album, colori Motown, ed echi dello sfavillante rhythm'n
blues alla Steve Winwood e Chris Farlowe, pezzo radiofonico di potenziale grande
presa.
Resto di sasso quando arrivo all' ottavo brano If
You Need Someone, pare appena uscita da un riuscitissimo jam meeting
con Bruce Springsteen, e sembra cantata da Rod Stewart la bella Baby
Blue, che anticipa un'altra perla, Union Street,
la perfetta fusione tra un primo poetico Van Morrison e un adrenergico Steve Marriott
(ultimo anno Small Faces), con un bel Hammond a ricamo. Ancora vibrazioni r'n'b
con Temptations e chiusura con la splendida
ballata Forever's A Long Time Gone, che riporta
alla memoria l'incedere maestoso degli anni d'oro degli Stones (Let It Bleed-Exile
on a Main street). Sarà che la Scandinavia mi influenza comunque positivamente,
o che i Breakers hanno avuto l'onore di aprire per Paul Mc Cartney in Hyde Park,
ma voglio comunque incensare questi Danesi perché sono bravi, fanno semplice rock
di derivazione sixties, ma freschezza, grinta, amore e passione per la propria
musica e una produzione di altissimo livello non si trovano dietro l'angolo e
non si costruiscono a tavolino. Pochi gruppi, negli ultimi mesi, mi hanno eccitato
come The Breakers. Voglio esagerare, ottimo lavoro. (Silvio Vinci)