Troppo facile definire, come tanta critica ha fatto in questi giorni, Anna
Calvi come l'ultima epigona di PJ Harvey. Certo, la strada di questa giovane
inglese (ma di evidentissime origini italiane) altro non è che il proseguimento
di quella già tracciata a suo tempo da Patti Smith e Siouxsie Sioux prima e dalla
Harvey stessa poi. Però in Anna Calvi c'è un qualcosa di stranamente peculiare.
Dietro ad un fisico minuto, ad un viso da ragazzina e ad un look da diva anni
trenta (perché, si sa, di questi tempi il burlesque fa molto cool) c'è un che
di sensuale e conturbante, un'attitudine che mischia assieme il blues più disperato,
la malinconia di Edith Piaf e le tensioni superne di Jeff Buckley. C'è poi una
tecnica chitarristica fuori dal comune, che dà un tocco caratteristico a tutti
i dieci brani del disco. C'è infine una sorta di inquietudine che aleggia per
tutto il disco, una sorta di florilegio di presagi apocalittici rari da trovare
nel disco di una musicista di soli 21 anni. Insomma, tutte le caratteristiche
per centrare il bersaglio al primo colpo.
E così, la Domino, una delle
etichette indipendenti più attente e rispettate del panorama musicale, non si
è fatta sfuggire l'occasione e ha subito preso al volo la Calvi, affiancandole
un produttore di garanzia come Rob Ellis, già con PJ Harvey, Marianne Faithfull,
Ute Lemper e Scott Walker. E a ben guardare, frammenti di questi artisti balenano
continuamente nei solchi del disco, catapultando l'ascoltatore dentro ad un'esperienza
allo stesso tempo carnale e celeste, sospesa fra desiderio e cadute. Questi, in
effetti, sono i temi delle canzoni di Anna Calvi, davanti alle quali è facile
rimanere spaventati, "come d'altronde succede di fronte alle cose grandi della
vita", per citare Nick Cave, un altro nome più volte accostato alla giovane anglo-italiana.
Il disco inizia con lo spettrale strumentale Rider
to the sea, un piccolo showcase delle capacità chitarristiche della
piccola musicista londinese, per deviare poi su canzoni più costruite ed articolate,
dalle vaghe reminiscenze teatrali (e qui torna il paragone con Ute Lemper), tra
le quali spiccano la scura Desire, introdotta
da un soffio di harmonium e che si trasforma mano a mano in un tourbillon elettrico
e drammatico, The Devil, una canzone che avrebbe
potuto scrivere il povero Jeff Buckley se un fiume non se lo fosse portato via
in una notte di maggio (ma questa è un'altra storia), l'ipnotica
I'll be your man, in cui emerge l'anima più blues della Calvi e, soprattutto,
la folgorante First we kiss, dal travolgente
crescendo con tanto di archi finali. Dato l'ottimo esordio, ora rimane da vedere
se la Calvi saprà crescere, guadagnando in personalità (che già non le manca,
intendiamoci) e riuscendo a ripetersi su questi livelli. Si dice che il tempo
è galantuomo: staremo a vedere se Anna Calvi saprà approfittarne. (Gabriele
Gatto)