Questo è un disco importante. Denso e spiazzante, a dispetto della facilità
con cui si fa ascoltare. Scorre fluido, a tratti impalpabile, dalla prima all'ultima
nota ma nasconde un ribaltamento semantico. Daniel Bejar, ovvero una percentuale
importante dei canadesi New Pornographers, compie con Kaputt il
suo esercizio di stile più imprevedibile (lui che, sotto il cappello Destroyer
ha all'attivo 9 album, nessuno uguale all'altro). Dietro queste canzoni tirate
a lucido è in atto un processo di decontestualizzazione che - il pissoir di Duchamp
o le finzioni di Borges ce lo ricordano - è cifra dell'arte moderna più consapevole.
Bejar decontestualizza un suono, un'estetica inesorabilmente connotata (gli anni
'80 più appariscenti e futili), e lo trapianta nel presente postindustriale, liberando
significati nascosti.
Troviamo le batterie elettroniche della new wave
danzante (il synth-pop di Poor in Love), lo
smooth jazz che srotola tappeti di tastiere davanti al soffio strozzato dei fiati
(la tromba di JP Carter in Chinatown e Blue
Eyes, l'ambient soul di Downtown
e Suicide Demo for Kara Walker, brano nato
intorno alle liriche dell'artista afroamericana), il sophisti-pop degli Steely
Dan (Song for America), l'interpretazione
bianca, de-sensualizzata della disco music (i riferimenti a Enola Gay degli OMD
che percorrono Savage Night at the Opera).
E ancora: Brian Ferry, New Order, Blue Nile, Kenny G… Nomi che, certo, non si
leggono spesso su Rootshighway. Ma tant'è: la soundtrack di quell'era ingenuamente
sintetica (The Age of Plastic, la definirono i Buggles), è qua manipolata
per raccontare, con il linguaggio stilizzato del cinema noir, una società che,
da quei giorni, è cresciuta esponenzialmente in cinismo e incomunicabilità, moltiplicando
la produzione di segni e riducendo nel contempo i loro significati. La carta colorata
della confezione postmoderna avvolge il racconto in modo mirabile: è solo sottofondo,
gradevole e innocuo ma - sembra maliziosamente suggerire - cosa non lo è? Viviamo
in un miraggio, come i personaggi nel videoclip della title track.
Il
canto apatico di Bejar, doppiato dalla voce calda di Sibel Thrasher, è il primo
sintomo di straniamento, prima ancora delle parole, che, ascoltate da vicino,
suonano come ermetiche grida di claustrofobia e decadenza, ripetute ad libitum
fino a confondersi nell'easy listening del paesaggio. "I can't walk away/You can't
walk away" (Chinatown); "I woke up and everything was drowning" (Downtown); "Why
does everybody sing along, when we built this city on ruins?" (Poor in Love).
La risposta è forse nei versi emblematici che galleggiano sugli 11 minuti di Bay
of Pigs, che parte come un brano di Brian Eno e diventa un latin-funky
sintetico: "Magnolia's a girl, her heart is made of wood/As apocalypses go, that's
pretty good, sha-la-la wouldn't you say?". Come dire: è la fine del mondo, ma
perché smettere di ballare? Sotto la superficie piatta di quei dischi già allora
scorreva un'inquietudine carsica che vorticava sottotraccia (dopotutto, quella
stagione nasceva dalla suppurazione del punk e della new wave): oggi Bejar la
lascia sgorgare libera in queste nove canzoni agghindate per una festa che non
può nemmeno essere nostalgica perché, in verità, non c'è mai stato niente da festeggiare.
"It don't mean a thing. It never means a thing. It's got that swing". (Yuri
Susanna)