inserito 10/03/2010

Destroyer
Kaputt
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Merge  2011
]



Questo è un disco importante. Denso e spiazzante, a dispetto della facilità con cui si fa ascoltare. Scorre fluido, a tratti impalpabile, dalla prima all'ultima nota ma nasconde un ribaltamento semantico. Daniel Bejar, ovvero una percentuale importante dei canadesi New Pornographers, compie con Kaputt il suo esercizio di stile più imprevedibile (lui che, sotto il cappello Destroyer ha all'attivo 9 album, nessuno uguale all'altro). Dietro queste canzoni tirate a lucido è in atto un processo di decontestualizzazione che - il pissoir di Duchamp o le finzioni di Borges ce lo ricordano - è cifra dell'arte moderna più consapevole. Bejar decontestualizza un suono, un'estetica inesorabilmente connotata (gli anni '80 più appariscenti e futili), e lo trapianta nel presente postindustriale, liberando significati nascosti.

Troviamo le batterie elettroniche della new wave danzante (il synth-pop di Poor in Love), lo smooth jazz che srotola tappeti di tastiere davanti al soffio strozzato dei fiati (la tromba di JP Carter in Chinatown e Blue Eyes, l'ambient soul di Downtown e Suicide Demo for Kara Walker, brano nato intorno alle liriche dell'artista afroamericana), il sophisti-pop degli Steely Dan (Song for America), l'interpretazione bianca, de-sensualizzata della disco music (i riferimenti a Enola Gay degli OMD che percorrono Savage Night at the Opera). E ancora: Brian Ferry, New Order, Blue Nile, Kenny G… Nomi che, certo, non si leggono spesso su Rootshighway. Ma tant'è: la soundtrack di quell'era ingenuamente sintetica (The Age of Plastic, la definirono i Buggles), è qua manipolata per raccontare, con il linguaggio stilizzato del cinema noir, una società che, da quei giorni, è cresciuta esponenzialmente in cinismo e incomunicabilità, moltiplicando la produzione di segni e riducendo nel contempo i loro significati. La carta colorata della confezione postmoderna avvolge il racconto in modo mirabile: è solo sottofondo, gradevole e innocuo ma - sembra maliziosamente suggerire - cosa non lo è? Viviamo in un miraggio, come i personaggi nel videoclip della title track.

Il canto apatico di Bejar, doppiato dalla voce calda di Sibel Thrasher, è il primo sintomo di straniamento, prima ancora delle parole, che, ascoltate da vicino, suonano come ermetiche grida di claustrofobia e decadenza, ripetute ad libitum fino a confondersi nell'easy listening del paesaggio. "I can't walk away/You can't walk away" (Chinatown); "I woke up and everything was drowning" (Downtown); "Why does everybody sing along, when we built this city on ruins?" (Poor in Love). La risposta è forse nei versi emblematici che galleggiano sugli 11 minuti di Bay of Pigs, che parte come un brano di Brian Eno e diventa un latin-funky sintetico: "Magnolia's a girl, her heart is made of wood/As apocalypses go, that's pretty good, sha-la-la wouldn't you say?". Come dire: è la fine del mondo, ma perché smettere di ballare? Sotto la superficie piatta di quei dischi già allora scorreva un'inquietudine carsica che vorticava sottotraccia (dopotutto, quella stagione nasceva dalla suppurazione del punk e della new wave): oggi Bejar la lascia sgorgare libera in queste nove canzoni agghindate per una festa che non può nemmeno essere nostalgica perché, in verità, non c'è mai stato niente da festeggiare. "It don't mean a thing. It never means a thing. It's got that swing".
(Yuri Susanna)

www.mergerecords.com/artists/destroyer


   


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