Tra gli innumerevoli stereotipi del rock'n'roll, le difficoltà del secondo
disco costituiscono una sorta di passaggio immutabile. Non sfuggono alle
regole neppure i Fleet Foxes, specialmente se il primo "ingombrante"
capitolo ha rappresentato una sorta di rivelazione, in qualche modo simbolo
e apripista di un'intera generazione neo-folk rock a dettare legge nel
gusto di pubblico e critica. Ecco allora trascorrere tre anni di ripensamenti,
rivisitazioni, facendo maturare in tour l'idea di Helplessness Blues,
titolo contorto e affascinante che gioca con le ombre e la malinconia
di Robin Pecknold e compagni. Dal folklore dell'esordio, dalla geografia
e dai luoghi americani evocati con tanta enfasi si è passati ad una sorta
di mappa dell'anima, per cui quegli stessi luoghi sono diventati angoli
della mente. Tradotto in soldoni si tratta di una manciata di canzoni
forse meno suggestive dal punto di vista testuale ma più personali nell'ambientazione
sonora. Le conseguenze non hanno scalfito più di tanto quello che resta
"il suono" dei Fleet Foxes, ancora oggi messaggeri di un folk
rock estatico, impastato oltre ogni misura di armonie vocali e giochi
acustici che rimestano con gioia nel passato, senza dimenticarsi di operare
nel presente dell'indie rock.
La mediazione funziona a livello estetico, infarcendo l'album di suoni
più "curiosi", quasi nascondendosi dietro la presunta stravaganza, molto
sixties va detto, di harpsichord, marxophone, mellotron, sintetizzatori
Moog e campane tibetane maneggiate da Casey Wescott e dal chitarrista
Skyler Skjelset. Gli applausi che stanno cadendo a pioggia dal mondo intero
non fanno che confermare: è un segno dei tempi e i Fleet Foxes lo cavalcano
con maestria e assoluta onestà di intenti. Oggi si può affermare
che Helplessless Blues chiarisce meglio le possibilità che la band di
Seattle rappresenti il culmine di un affinamento della ricerca sulle radici
storiche del rock. Hanno scelto infatti la via più tortuosa e interessante,
a dispetto dell'apparente semplicità delle loro melodie: Bedouin
Dress esalta una linea arabeggiante nell'uso del violino, la
suite The Shrine / An Argument infila
uno spiazzante (e forse un po' gratuito) finale in tono "free jazz", ma
nell'insieme sono singoli episodi dentro un disco di una uniformità a
volte impeccabile.
Non ci sono in teoria difetti clamorosi: le voci celestiali "coprono"
infatti qwalche magagna compositiva, come se in assenza di qualche idea
strumentale più coraggiosa i Fleet Foxes possano sempre rivolgersi ai
saliscendi di Montezuma e Sim
Sala Bim, titoli che già richiamano un certo esotismo di facciata,
tanto quanto la musica si fa un diluvio di citazioni. West Coast naturalmente,
magari della specie più sognante alla David Crosby, il manuale del perfetto
british folk con The Cascades, raccoglimenti
acustici in Blue Spotted Tail, tenue
psichedelia, barocchismi vari ed esplosioni pop in Battery
Kinzie e Grown Ocean, persino
qualche piccolo innocente plagio (Lorelai…non
sembra di averla già sentita da qualche parte?). Ci sono oasi di assoluto
fascino in Helplessness Blues, perché negarlo, ma anche
la sensazione di una perfezione che andrebbe scalfita nel prossimo futuro.
(Fabio Cerbone)