inserito 14/10/2011

Joe Henry
Reverie
[
Anti/ Self  
2011]



"Bianco e nero, ma non senza sangue rosso nelle vene", immagine calzante che ci offre lo stesso Joe Henry per leggere in controluce questo ambizioso e asciutto Reverie, disco che solo apparentemente sottrae, svuota e in realtà costruisce minuziosamente lavorando sugli spazi. Profonda disamina sullo scorrere del tempo e sull'influenza che quest'ultimo esercita sul senso di amore, perdita e spritualità, Reverie richiama ancora una volta l'attenzione sulla complessità della scrittura di Henry, anche sulla sua cifra molto letteraria, là dove i personaggi e le storie descritte possiedono sempre un carattere sospeso, molto metafisico, per cui si collocano immediatamente fuori dell'ordinario. È la capacità insomma di suonare qui e ora ma rimandare nello stesso istante a qualcosa di classico: caratteristica che possiedono in pochi e che forse accomuna Henry soltanto a Tom Waits. Un nome non evocato a caso, se è vero che stilisticamente (e non solo per il dato superficiale della presenza di Marc Ribot in Tomorrow Is October e Deathbed Version) molte di queste ballate umide e dal tocco jazzy anelano non poco al Waits maliconico e notturno della prima parte di carriera. Potremmo aggiungere l'elegante e leggera vena di un Randy Newman e avremmo trovato un altro punto di riferimento, ma sarebbe comunque riduttivo e ingrato nei confronti di un autore ormai emancipato, maturo, entrato nell'età della sapienza.

Da riverito produttore di successo a songwriter raffinato e intellettuale che gioca con il folk, la canzone pop d'autore e le gradazioni cool del jazz, Joe Henry può permettersi di fare anche accademia, come accade in qualche passaggio del nuovo Reverie, senza per questo apparire minimamente spento o prevedibile. La cinquina iniziale è d'altronde un'esibizione di bellezza inappuntabile: l'abbandono di Heaven's Escape e la sua morbida melodia retrò, le densità sprituale nell'invocazione di Odetta, i chiaroscuri da late hour di After The War fino alla fisicità da cabaret blues di Sticks & Stones e al fluttuare di Grand Street. Un rincorrersi fra pianoforte (ruolo centrale il suo nel disco, qui nella mani del bravissimo Keefus Ciancia) e chitarra acustica che abbozza le melodie attenendosi all'essenzialità, eppure risultando multiforme e misterioso. È un po' di quel sangue rosso a cui faceva riferimento lo stesso Henry in apertura; in concreto è il frutto della presenza mai scontata di David Piltch e Jay Bellerose, sezione ritmica che lavora ormai ad occhi chiusi e qui pare scarnificare ancora di più certe intuizioni ereditate da Civilians.

Nello specifico Reverie è stato impresso su nastro nello studio casalingo di Henry, in quelli che sono stati definiti tre giorni di esplorazione: finestre aperte, i rumori della strada sullo sfondo (li potete sentire alla fine di ogni brano, fra cani, automobili e mamme che chiamano i loro bambini), come a simboleggiare la questione centrale dello scorrere del tempo. Un espediente un po' studiato se volete, ma ciò che conta è il carattere dell'opera: il brusco segno country blues di Dark Tears e Deathbed Version, il romanticissimo abbandono di Eyes Out For You e la seranata di Unspeakable, prodromi di un finale in crescendo, dopo una parte centrale a tratti indecisa sul da farsi, che stringe sulla serenità di The World And All I Know. Lasciatelo decantare: è un album che nella sua scarna natura può ingannare.
(Fabio Cerbone)

www.joehenrylovesyoumadly.com


   


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