Stephen
Malkmus and the Jicks Mirror Traffic
[Matador/
Self 2011]
Il matrimonio tra Stephen Malkmus e Beck Hansen era scritto nel destino.
Peccato solo che venga celebrato con quindici anni, più o meno, di ritardo, e
nell'indifferenza dei più. L'incontro di questi due santoni della generazione
slacker meriterebbe - se non altro per il rispetto che si deve a due maestri (low
profile e trasandati quanto si vuole, ma pur sempre maestri) - un'attenzione non
distratta. Noi ci proviamo: e ne caviamo l'idea che Beck, chiamato in veste
di produttore, poco abbia voluto o potuto, per alterare quella cifra di riconoscibilità
confortevole e immediata (una classicità indie, in qualche modo) che le canzoni
di Malkmus si portano appresso da ben prima dell'omonimo esordio solista del 2001
- che si è rivelato col tempo un punto di partenza ingannevole, con quel suo gigioneggiare
divertito (qua in parte recuperato), rispetto alla seriosa, composta rilassatezza
dei dischi successivi. Chi paventava che la sempre più evidente autoindulgenza
degli album con i Jicks avesse condotto, con Real Emotional Trash, a un "punto
di non ritorno" - quelle lunghe jam strumentali e quell'aria da acid-trip anni
'70 per quarantenni annoiati - può sentirsi sollevato: i quindici brani di Mirror
Traffic ritrovano una misura asciutta e potabile (siamo in media sui tradizionali
tre minuti di durata a canzone), se non la piacevole, sbilenca apparenza pop degli
anni Pavement (qualcuno, non stando più nella pelle, ha tirato in ballo Wowee
Zowee).
Ma siamo poi certi che sia qualcosa di più di una questione di
forma? A ben sentire, la sostanza della scrittura di Malkmus è sempre stata uguale
a se stessa e le canzoni del nuovo lavoro non fanno eccezione. In fondo, se immaginate
di allungarle con qualche coda strumentale, starebbero comode anche sul disco
precedente. Il repertorio, insomma, è quello canonico, e va bene così: il pop
"fratturato" (Forever 28, Senator),
il canto svagato e al limite della stonatura, i riff vorrei-ma-non-posso (vedi
il glam rock di Tune Grief), la space-rock
tascabile (Share The Red), il krautrock rimasticato
e ammorbidito (Tigers, All
Over Gently), il folk accartocciato (No One
Is, con debito evidente al Beck di Sea Change), le pillole di psichedelia
(gli sketch velvettiani di Asking Price e
Fall Away, o le spirali garage e byrdsiane
di Stick Figures In Love).
Anche l'arguzia
dei testi è sempre al suo posto, magari meno centrata del solito quando le liriche
rinunciano alla consueta astrattezza ("I know what the senator wants/What the
senator wants is a blowjob") ma ancora capace di lampi di fulminea ironia ("I
caught you streaking in your Birkenstocks/A scary thought in the 2Ks"). Leggerete
qua e là che questo è il miglior disco solista di Malkmus, e ci può stare. Almeno
fino al prossimo. Insomma, il maturo ragazzo di Santa Monica sembra essere entrato
in quel territorio in cui un autore può riproporre se stesso ad libitum, con qualche
variazione di tono (più apparente che reale), certo di contare sull'eterna venerazione
dei convertiti e l'indifferenza del resto del mondo. Ecco: Stephen Malkmus si
avvia a diventare il Van Morrison dell'alternative rock. (Yuri Susanna)