inserito 02/11/2011

Stephen Malkmus and the Jicks
Mirror Traffic
[
Matador/ Self  2011
]



Il matrimonio tra Stephen Malkmus e Beck Hansen era scritto nel destino. Peccato solo che venga celebrato con quindici anni, più o meno, di ritardo, e nell'indifferenza dei più. L'incontro di questi due santoni della generazione slacker meriterebbe - se non altro per il rispetto che si deve a due maestri (low profile e trasandati quanto si vuole, ma pur sempre maestri) - un'attenzione non distratta. Noi ci proviamo: e ne caviamo l'idea che Beck, chiamato in veste di produttore, poco abbia voluto o potuto, per alterare quella cifra di riconoscibilità confortevole e immediata (una classicità indie, in qualche modo) che le canzoni di Malkmus si portano appresso da ben prima dell'omonimo esordio solista del 2001 - che si è rivelato col tempo un punto di partenza ingannevole, con quel suo gigioneggiare divertito (qua in parte recuperato), rispetto alla seriosa, composta rilassatezza dei dischi successivi. Chi paventava che la sempre più evidente autoindulgenza degli album con i Jicks avesse condotto, con Real Emotional Trash, a un "punto di non ritorno" - quelle lunghe jam strumentali e quell'aria da acid-trip anni '70 per quarantenni annoiati - può sentirsi sollevato: i quindici brani di Mirror Traffic ritrovano una misura asciutta e potabile (siamo in media sui tradizionali tre minuti di durata a canzone), se non la piacevole, sbilenca apparenza pop degli anni Pavement (qualcuno, non stando più nella pelle, ha tirato in ballo Wowee Zowee).

Ma siamo poi certi che sia qualcosa di più di una questione di forma? A ben sentire, la sostanza della scrittura di Malkmus è sempre stata uguale a se stessa e le canzoni del nuovo lavoro non fanno eccezione. In fondo, se immaginate di allungarle con qualche coda strumentale, starebbero comode anche sul disco precedente. Il repertorio, insomma, è quello canonico, e va bene così: il pop "fratturato" (Forever 28, Senator), il canto svagato e al limite della stonatura, i riff vorrei-ma-non-posso (vedi il glam rock di Tune Grief), la space-rock tascabile (Share The Red), il krautrock rimasticato e ammorbidito (Tigers, All Over Gently), il folk accartocciato (No One Is, con debito evidente al Beck di Sea Change), le pillole di psichedelia (gli sketch velvettiani di Asking Price e Fall Away, o le spirali garage e byrdsiane di Stick Figures In Love).

Anche l'arguzia dei testi è sempre al suo posto, magari meno centrata del solito quando le liriche rinunciano alla consueta astrattezza ("I know what the senator wants/What the senator wants is a blowjob") ma ancora capace di lampi di fulminea ironia ("I caught you streaking in your Birkenstocks/A scary thought in the 2Ks"). Leggerete qua e là che questo è il miglior disco solista di Malkmus, e ci può stare. Almeno fino al prossimo. Insomma, il maturo ragazzo di Santa Monica sembra essere entrato in quel territorio in cui un autore può riproporre se stesso ad libitum, con qualche variazione di tono (più apparente che reale), certo di contare sull'eterna venerazione dei convertiti e l'indifferenza del resto del mondo. Ecco: Stephen Malkmus si avvia a diventare il Van Morrison dell'alternative rock.
(Yuri Susanna)

www.stephenmalkmus.com


  


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