The
Pains of Being Pure at Heart Belong
[Play
It Again Sam 2011]
Immaginate un acrobata. Il pubblico lo segue col fiato sospeso, quasi incredulo
che riesca ad avanzare così spavaldo, preoccupato che lungo quell’esaltante evoluzione
sul filo possa inciampare prima della fine. Ma l’acrobata riesce ad arrivare fino
in fondo senza la benché minima incertezza ed allora l’applauso arriva fragoroso
ed entusiasta. Ecco, questo disco è un’acrobazia da standing ovation. Sì, perché
Belong, seconda prova discografica dei newyorkesi The Pains of
Being Pure at Heart (l’omonimo esordio del 2009 aveva già attirato una certa
attenzione) riesce a trovare un miracoloso equilibrio tra passato e futuro, tra
il recupero degli anni 80 tanto à la page di questi tempi e squisitezze elettroniche
postmoderne, tra un’attitudine decisamente indie e ritornelli che mandano in orbita
chi si strugge per il pop perfetto. A ratificare che al di là del loro sincero
understatement antidivistico e della loro idiosincrasia per i riflettori, Kip
Berman (chitarra e voce), Peggy Wang (tastiere e voce), Alex Naidus (basso) e
Kurt Feldman (batteria) fanno terribilmente sul serio: ci sono i nomi di Flood
e Alan Moulder (Smashing Pumpkins, U2, Nine Inch Nails e Depeche Mode nel loro
curriculum) in cabina di regia a dare il definitivo slancio a un materiale di
prim’ordine.
La title track in apertura è già un susseguirsi di improvvise
scariche elettriche che squarciano un canto celestiale come se The Pains fossero
dei redivivi Smashing Pumpkins, ma la sagoma di Billy Corgan compare anche nell’attacco
della successiva Heaven’s Gonna Happen Now
(le prime note sono parenti strette di Tonight Tonight), brano strepitoso che
si sublima in accelerazioni chitarristiche che fanno staccare da terra. Così come
a cinque stelle è My Terrible Friend, la Friday
I’m in love degli anni 10, pop baciato dagli dei in cui i Cure sono un punto di
riferimento da piegare ai propri istinti che portano verso intrecci di chitarre
sparate a palla. E la presenza della mitica band di Robert Smith (anche lui in
voga quest’anno, pensate a Sean Penn in This must be the place, nuovo film
di Paolo Sorrentino) è palpabile anche nella splendida coda di Heart
in Uour Heartbreak, altra mirabile crasi tra new wave e indie pop.
E poi ci sono Anne with an E, contagioso ondeggiare
di campane che lasciano strada alla delicata tempesta di un ritornello perfetto
e Too tough, fiammeggiante (non) ballata in
cui il ritmo controllato fa emergere ancora più chiaramente la capacità di confezionare
melodie cristalline che è nel dna del quartetto di Brooklyn.
Che dire,
infine, della cura di certi dettagli che sono la ciliegina di una torta già parecchio
gustosa: gli inserti di elettronica spaziale in The Body,
la personalissima rilettura del power pop in Girl of
a 1000 Dreams, il basso insinuante e la sospensione che anticipa il
ritornello nella già citata Heart in your heartbreak. Belong è musica
aerea che si libra leggiadra e sfrontata sulle brutture, che risponde al cinismo
diffuso con la forza dirompente di una bellezza fragile e al contempo potentissima.
Più che un disco, uno stato d’animo a cui è bello e necessario abbandonarsi. (Gianuario
Rivelli)