Jesse
Sykes & The Sweet Hereafter Marble Son
[Fargo/
Self
2011]
Trovarsele
così, le note che descrivono le nuove passioni di Jesse Sykes e dei suoi
Sweet Hereafter, lasciano quanto meno interdetti: marcare l'accento sulle recenti
collaborazioni con Sunn0))) e Boris (nel progetto pareallelo Alter), messaggeri
di spettrali ambientazioni fra metal e linguaggi dilatati che dalla radice psichedelica
oggi passano sotto il nome di drone music, fa pensare ad un voltafaccia spiazzante,
come se lo scenario gotico, tipicamente country noir, che così efficacemente veniva
evocato dai precedenti lavori del gruppo di Seattle si fosse trasformato in un
vero e proprio incubo. La realtà è ben diversa, perché se di influenze e contributi
si deve parlare, allora questi ultimi si sono risolti soltanto in un suono più
livido, elettrico, squarciato dai lampi chitarristici del bravissimo Phil Wandscher.
Oggi più che mai è lui il direttore nell'orchestra denominata The Sweet Hereafter:
l'ex Whiskeytown (non possiamo che ricordare sempre con una certa nostalgia il
suo ruolo di co-fondatore con Ryan Adams) padroneggia un carico di riverberi e
fragranze psichedeliche che sembrano sbucare dalla stagione più visionaria della
baia di San Francisco, allargando la radice sixties e folk rock della band, così
come i profumi tradizionali della scrittura di Jesse Sykes, verso fughe lisergiche
e lunghe code strumentali.
Marble Son non è dunque un salto
nel buio, anche se le atmosfere lo farebbero pensare, semmai un'ulteriore "sbandata"
oltre le intuizioni del già ottimo Like
Love Lust and the Open Halls of Soul, facendo tesoro degli anni di
produzione al fianco del quotato Tucker Martine. La forma canzone allora si espande,
seguendo magari i suggerimenti dei Black Mountain con cui hanno condiviso un tour,
mentre la voce di Jesse Sykes non è più illuminata al centro della scena, ma un
elemento del tutto, uno strumento che si deve amalgamare ai passaggi un po' onirici
e un po' chiassosi dei compagni di ventura. Una musica non per tutte le stagioni,
che esige davvero un ambiente attorno a sé, una serie di suggestioni che ne carichino
la parte emozionale: in fondo le placide acque della title track, le sognanti
melodie di Come To Mary e Be
It Me, Or Be It Done, non si distanziano dal marchio di fabbrica di
questa ignorata, validissima testimone del nuovo folk americano, ma il loro effetto
si annulla inevitabilmente nei rintocchi di Hushed
By Devotion, cavalcata di otto minuti che deflagra in picchi
di rock psichedelico, feedback e riff di chitarra traboccanti.
Questa
"ruggine" elettrica, come l'avrebbe giustamente chiamata il maestro Neil Young,
si impossessa di Ceilings High, forse la più
vicina alla sostanza di certo alternative country del passato, e prende letteralmente
il largo con Pleasuring The Divine, più nervosa
nel suo sviluppo. È qui che risalta il ruolo di Wandscher, il quale si tiene in
serbo persino un fantomatico Instrumental,
sei minuti di echi western psichedelici che sembrano resuscitare la lezione della
coppia Cipollina-Duncan nei Quicksilver Messenger Sevice, riletta alla luce di
una musica più rarefatta e rallentata. Svoltato l'angolo torna protagonista per
un momento l'inquietudine della voce di Jesse Sykes in Birds
Of Passerine, nonostante sia il trascinante saliscendi di Your
Own Kind a distinguere con intensità il percorso degli attuali Sweet
Hereafter. Wooden Roses nel finale pare voler
calmare le acque, ma è evidente quanto Marble Son sia un disco di svolta, un passaggio
che lascia aperti anche molti interrogativi su quale sarà il destino della
coppia artistica Sykes-Wandscher. Conservando comunque il fascino un po' sinistro
e incantato del passato, Jesse Sykes and the Sweet Hereafter sono oggi un eccitante
gruppo al confine tra il senso profondo delle radici e l'ignoto della ricerca.
(Fabio Cerbone)