William
Elliott Whitmore Field Songs
[Anti/
Self
2011]
Dalle
profonde rive del fiume Mississippi torna ad affascinarci con la sua voce catramosa
e il suo banjo William Elliott Whitmore, dopo l'ottimo Animals
in The Dark. La foto in copertina di questo suo quinto album parla
da sé: una semplice foto seppia, dove due agricoltori scaricano un carro pieno
di fieno a simbolizzare il rapporto dell'uomo con la terra, la natura e con la
vita rurale fatta di duro lavoro. Field Songs incorona con i suoi
umori l'essenza delle old time ballads, del folk di protesta e del blues rurale
degli anni '30 e '40 che erano cantati nei cotton fields da bluesman come Blind
Willie Johnson, Bukka White, Blind Blake e Leadbelly. Anche se meno immediato
del suo predecessore, Field Songs cresce ascolto dopo ascolto ed è il suo compagno
ideale. Nonostante suoni dismesso, scarno e malinconico ai primi ascolti, è l'album
più ispirato del farmer dell'Iowa e forse anche il suo masterpiece.
Ancora
una volta William basa tutto il suo sound sui suoni gentili di un banjo scordato
o di una vecchia chitarra acustica, su rudimentali tamburi, sui battiti di mano
o sugli stompin feet con qualche field recording registrati all'aperto
(il cinguettio degli uccelli, le cicale, il vento, l'acqua che scorre) ad accompagnare
la sua voce solitaria e spoglia, che mai ha suonato così vera, sincera e piena
di dolore. Se i primi tre album, Hymns For The Hopeless, Ashes To Dust e Song
Of The Blackbird (che formavano una sorta di trilogia) erano influenzati dalla
perdita dei genitori ed erano pieni di funeral songs e dolorose murder ballads,
Field Songs riflette la vita nell'heartland americano condotta nella fattoria
di 160 ettari dei nonni, dove è cresciuto e ancora oggi vive allevando i suoi
cavalli. Non stupisce perciò il fatto che i testi parlino della vita nel profondo
Sud, di una vita all'aria aperta condizionata dalla natura, il tutto avvolto dalla
sua voce che sempre più sembra quella di un motore diesel. Bury
your Burdens In The Ground riflette ancora il dolore palpabile per
la perdita dei genitori, un dolore che trova riparo nella natura. Il brano è scarno
con il banjo ad accompagnare la sua voce carica di gospel. La title track sembra
un pianto di dolore cantato da Mississippi John Hurt mentre nella tranquilla Let's
do Something Impossible il nostro troubador torna ad imbracciare il
suo banjo accompagnandoci pigramente sulle note di una folk ballad irresistibile
capace di infonderci tanta grazia e tranquillità.
Don't
Need It è uno dei brani più belli dell'album, un country blues tirato
e battuto dal fischiettio del vento e dal semplice suono del suo tamburo che rimbomba
ipnotico ed insistente. Everything Gets Gone
possiede il mood di una gospel song cantata con tutta l'anima e il cuore di un
vero cantastorie mentre Get There from Here è
una folk ballad trascinante che ti si appiccica in testa. Le cicale annunciano
la finale Not feeling Any Pain, un lungo e
tirato stompin' country blues che risulta il brano più riuscito dell'intera raccolta.
Nonostante la sua brevità (solo 8 brani) Field Songs deve essere
ascoltato tutto d'un fiato senza pause, al fine di poterti entrare e non lasciarti
più. Mai un semplice banjo e una chitarra acustica hanno suonato così sinceri
e veri. E come diceva Sam Beckett riassumendo l'essenza del blues "quando sei
quasi rovinato e non hai nulla, l'unica cosa che ti resta da fare è cantare, cantare
del proprio dolore". Colpo di Fulmine. (Emilio Mera)