inserito 01/08/2011

William Elliott Whitmore
Field Songs
[
Anti/ Self  
2011]



Dalle profonde rive del fiume Mississippi torna ad affascinarci con la sua voce catramosa e il suo banjo William Elliott Whitmore, dopo l'ottimo Animals in The Dark. La foto in copertina di questo suo quinto album parla da sé: una semplice foto seppia, dove due agricoltori scaricano un carro pieno di fieno a simbolizzare il rapporto dell'uomo con la terra, la natura e con la vita rurale fatta di duro lavoro. Field Songs incorona con i suoi umori l'essenza delle old time ballads, del folk di protesta e del blues rurale degli anni '30 e '40 che erano cantati nei cotton fields da bluesman come Blind Willie Johnson, Bukka White, Blind Blake e Leadbelly. Anche se meno immediato del suo predecessore, Field Songs cresce ascolto dopo ascolto ed è il suo compagno ideale. Nonostante suoni dismesso, scarno e malinconico ai primi ascolti, è l'album più ispirato del farmer dell'Iowa e forse anche il suo masterpiece.

Ancora una volta William basa tutto il suo sound sui suoni gentili di un banjo scordato o di una vecchia chitarra acustica, su rudimentali tamburi, sui battiti di mano o sugli stompin feet con qualche field recording registrati all'aperto (il cinguettio degli uccelli, le cicale, il vento, l'acqua che scorre) ad accompagnare la sua voce solitaria e spoglia, che mai ha suonato così vera, sincera e piena di dolore. Se i primi tre album, Hymns For The Hopeless, Ashes To Dust e Song Of The Blackbird (che formavano una sorta di trilogia) erano influenzati dalla perdita dei genitori ed erano pieni di funeral songs e dolorose murder ballads, Field Songs riflette la vita nell'heartland americano condotta nella fattoria di 160 ettari dei nonni, dove è cresciuto e ancora oggi vive allevando i suoi cavalli. Non stupisce perciò il fatto che i testi parlino della vita nel profondo Sud, di una vita all'aria aperta condizionata dalla natura, il tutto avvolto dalla sua voce che sempre più sembra quella di un motore diesel. Bury your Burdens In The Ground riflette ancora il dolore palpabile per la perdita dei genitori, un dolore che trova riparo nella natura. Il brano è scarno con il banjo ad accompagnare la sua voce carica di gospel. La title track sembra un pianto di dolore cantato da Mississippi John Hurt mentre nella tranquilla Let's do Something Impossible il nostro troubador torna ad imbracciare il suo banjo accompagnandoci pigramente sulle note di una folk ballad irresistibile capace di infonderci tanta grazia e tranquillità.

Don't Need It
è uno dei brani più belli dell'album, un country blues tirato e battuto dal fischiettio del vento e dal semplice suono del suo tamburo che rimbomba ipnotico ed insistente. Everything Gets Gone possiede il mood di una gospel song cantata con tutta l'anima e il cuore di un vero cantastorie mentre Get There from Here è una folk ballad trascinante che ti si appiccica in testa. Le cicale annunciano la finale Not feeling Any Pain, un lungo e tirato stompin' country blues che risulta il brano più riuscito dell'intera raccolta. Nonostante la sua brevità (solo 8 brani) Field Songs deve essere ascoltato tutto d'un fiato senza pause, al fine di poterti entrare e non lasciarti più. Mai un semplice banjo e una chitarra acustica hanno suonato così sinceri e veri. E come diceva Sam Beckett riassumendo l'essenza del blues "quando sei quasi rovinato e non hai nulla, l'unica cosa che ti resta da fare è cantare, cantare del proprio dolore". Colpo di Fulmine.
(Emilio Mera)

www.williamelliottwhitmore.com


   


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