Mark Selby
Dirt
Vanguard
2002

1/2


Le avvisaglie di un talento pronto ad esplodere erano nell'aria fin dal suo esordio, More Storms Comin, in seguito confermate anche dalla preziosa presenza nel tributo a Mississippi John Hurt. Difficile tuttavia prevedere uno scarto fulmineo dal tradizionale tracciato d'impostazione rock-blues su cui si era costruito la sua immagine. Mark Selby non è l'ennesimo guitar-hero cresciuto all'ombra di Steve Ray Vaughan (come il suo amico Kenny Wayne Shepard, per esempio): è innegabile che l'intero mondo delle dodici battute sia una componente essenziale, che cova sotto le ceneri del suo rock'n'roll ad alto tasso emozionale, eppure Dirt svela soluzioni (merito dellla produzione in coppia con Brent Maher) e canzoni di una maturità sorprendente per essere solamente al secondo lavoro. Lo si intuisce al primo stacco di chitarra in Reason Enough che Dirt è il disco rock che aspettavamo da tempo, crudo e torbido quando serve, romantico all'inverosimile e senza alcun senso di pudore nelle pause acustiche. L'attacco ricorda il Charlie Sexton solista (che ci manca un po', a dire il vero) ed è una scarica di adrenalina pura, con una slide assassina sullo sfondo e riff al cardiopalma. Insieme all'epica Willin' to Burn ed al finale incendiario della title-track rappresenta un autentico arsenale di artiglieria rock'n'roll da non perdere. Fosse tutto qui non ci sarebbe bisogno di scomodare le quattro stelle. La sorpresa arriva dalla capacità di scavare nei meandri nelle sue radici black e di sovrapporre elettrico ad acustico: nel soul-rock palpitante di Back Door to My Heart e Moon Over My Shoulder, con organi e slide guitar ad imprimere passionalità; nei profumi west-coast di You e Deep Pockets; nel clima raccolto di Easier to Lie; persino nel rock proletario di Unforgiven, che ricorda il Mellencamp più sporco di Whatever We Wanted. Abbiamo perso un onesto bluesman, abbiamo acquistato un rocker di razza.
(Fabio Cerbone)

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