Robert Finley
Goin' Platinum
[Nonesuch 2017]

robertfinleymusic.com

File Under: soul renegade

di Fabio Cerbone (08/01/2018)

C'erano già una strepitosa copertina e soprattutto un titolo esemplare a definire la favola a lieto fine di Robert Finley: Age Don't Mean a Thing sentanziava il suo esordio del 2016, a ragion veduta. Superati abbondantemente i sessant'anni, una vita spesa fra i bassifondi della black music del sud degli Stati Uniti, Finley è l'ennesimo trionfo del soul revival di questi tempi, ma niente affatto un'opera costruita o un fuoco di paglia. Basta la voce e il contorno sonoro di Goin' Platinum a sancirne la vera statura, la densa scorza di ambasciatore di certa tradizione dura a morire, tanto che il buon Dan Auerbach, produttore e sponsor principale di Finley, si azzarda a dichiarare che abbiamo di fronte "il più grande soul singer vivente".

Iperboli a parte e concesso un certo entusiasmo al buon Auerbach, coinvolto come parte in causa, la vicenda artistica e umana di Robert Finley non può non colpire nel segno, al resto ci pensano dieci canzoni nuove di zecca che hanno il passo dei classici, ma portano la firma attualissima dello stesso Auerbach, di Nick Lowe, John Prine, Pat McLaughlin, tutta gente trascinata nella confezione di un disco che suona retrò e moderno al tempo stesso, miracolo della mano sapiente dell'uomo dei Black Keys. Come si è arrivati a Goin' Platinum, al suo gustoso gumbo di southern soul, bollente rhythm'n'blues e vibrazioni sixties d'annata è la parte più curiosa da raccontare. Finley nasce, cresce e vive a Bernice, Louisiana, sperduto sud, impara a suonare la chitarra da ragazzino e frequenta i cori gospel della comunità. Ne forma uno da adulto, diventandone il leader, Brother Finley and the Gospel Sisters, e nel frattempo entra nella banda militare dell'esercito, quindi fa il carpentiere per restare a galla e nei week-end razzola fra i circuiti regionali, a volte suonando anche per strada.

È la "Music Maker Relief Foundation", associazione dedita alla riscoperta di bluesman dimenticati, a rimetterlo in pista, quando ormai Finley ha problemi di salute, ha perso la vista e non si immagina di entrare in uno studio per incidere un disco. Age Don't Mean a Thing è il citato biglietto da visita, con la complicità di Bruce Watson e Jimbo Mathus: la stampa ne parla, la voce si sparge e arriva fino a Dan Auerbach. Il quale raggranella un cast di primordine, fra autori e musicisti, e spinge nella direzione di un autentico party nostalgico, ma ben attento a non scadere mai nel puro citazionismo. Finley ne esce esaltato fra la ritmica piaciona di Get It While You Can, apripista ideale e manifesto del disco, e la potenza predicatoria di Medicine Woman, fino ai deliziosi coretti e lo staccato di If You Forget My Love. Il timbro è potente come un novello Wilson Pickett e ha qualcosa di curiosamente simile al migliore Tom Jones, mentre il sound macina un soul roboante di marca Stax, che evidenzia le solide radici blues del personaggio in Three Jumpers, un impudente e gioviale passo r&b d'annata nel riff di Honey, Let Me Stay the Night e persino certo spacconerie che sarebbero piaciute a Chuck Berry in You Don't Have to Do Right (alla chitarra l'ospite Duane Eddy).

I richiami sono quelli giusti, non c'è un arrangiamento fuori posto e l'intelligente sensibilità filologica di Auerbach completa l'opera, affondando mani e piedi nelle vestigia della scuola Muscle Shoals con la strepitosa Complications, prima di chiudere il sipario con lo struggimento gospel in falsetto di Holy Wine, tornando idealmente alle fondamenta sulle quali Robert Finley ha formato la sua personalità di cantante e musicista.


    


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