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Buddy Guy
The Blues Don't Lie
[RCA/Sony 2022]

Sulla rete: buddyguy.net

File Under: blues legend


di Matteo Fratti (05/11/2022)

Il sorriso di Buddy Guy splende come non mai sulla copertina del suo nuovo disco. The Blues Don’t Lie sembrerebbe essere allora il suo trentaquattresimo album da studio, ma i dischi di uno degli ultimi eroi di quella scena chicagoana dove il suono del Sud si è urbanizzato, divenendo quell’inconfondibile marchio di fabbrica della “città ventosa”, non si contano. E’ Buddy Guy e non c’è altro da aggiungere, al cospetto dei suoi ottantasei anni, che ce lo fanno ritrovare qui a far coppia con gli innumerevoli ospiti per un disco potente, prodotto da Tom Hambridge in gran parte a Nashville, e poi col contributo degli studi di provenienza delle collaborazioni.

E neppure ci sarebbe da dire alcunché di queste sonorità in grande spolvero, magistrale “wall of sound” da far vibrare i vetri, con band al seguito che alterna fior fiore di musicisti al susseguirsi dei bassi di Michael Rhodes e Glenn Worf, come della batteria dello stesso Tom Hambridge, piuttosto che della chitarra di Rob McNelley, oltre alle tastiere di Kevin McKendree o Reese Wynans, Max Abrams e Steve Patrick ai fiati, interventi di Michael Saint-Leon ad altra chitarra e controcanti di Mike Hicks. Un ineccepibile investimento, che fa onore a un grande e lo coinvolge al meglio, quando è lui a restituirti il favore con quell’approccio nervoso e cristallino che, ci sembra, brilli ancor di più in quelle tracce in cui persino le belle ospitate se ne vanno, l’eroe è solo e la migliore del lotto è nientemeno che l’ultima traccia, spoglia di quella cosmesi sonora divertita e divertente in quest’ora di musica (ben sedici, le tracce di The Blues Don’t Lie) e Buddy che ci saluta su di una I’m A King Bee acustica, come dai reconditi ancestrali dello stesso Chicago-Blues.

Un fuori programma, perché il blues urbano è stato anzitutto elettrificato ed il banco di prova, se mai ce ne fosse ancora bisogno, sono le restanti parti di quest’ultima vicenda, vissuta al fianco di guest stars come Mavis Staples, Elvis Costello, James Taylor, Bobby Rush, Jason Isbell o Wendy Moten, neanche fossimo al suo famoso Buddy Guy’s Legends, 754 South Wabash in Chicago, Illinois. Lo incontrammo davvero quella sera di un viaggio al Chicago Blues Fest, 2009, dove in una visita al suo locale, orologio d’oro e tuta “da casa”, lo avvicinammo coi nostri omaggi, che quasi pareva infastidito del disturbo di due “visi pallidi” d’ignota provenienza.

Lo ritroviamo qui, in un disco che parrebbe fin troppo affollato, con le tracce che certo “vibrano” di blues come il trillo della sua chitarra, travolgente in apertura della fin troppo invadente I Let My Guitar Do The Talkin’, così come nella title-track di un più discreto e apprezzabile slow, quando a dire che il blues non mente in realtà, è piuttosto la più equilibrata e bella The World Needs Love. Non possiamo così non apprezzare un blues carico di soul come We Go Back, condiviso da due statuari interpreti come lo stesso Guy e Mavis Staples. Certo è che se le collaborazioni fanno sempre molto effetto, e piace senz’altro godersi anche un funky sincero con Bobby Rush all’ottava What’s Wrong (e House Party con Wendy Moten, a fare il paio per le rese collaborative migliori) è nell’infornata finale che mi pare di ritrovare quanto si riesca a gustarsi al meglio: Buddy and the band, che già ce lo anticipava sull’intermezzo quasi downhome di Well Enough Alone, qui con l’omaggio al caro B.B. King di Sweet Thing, restituendoci cos’altro di meglio ci possa capitare da un album di tal fatta, commerciale ma con gusto, e qualche chicca.


    


<Credits>