L'ironia della sorte è che il suo vero nome sarebbe il ben più noto Barry White,
ma quando nel 1984 riuscì finalmente ad esordire, il suo battesimo apparteneva
già ad un leone della disco music in piena decadenza. Scelse allora quello forse
meno altisonante ma molto più autorevole di Whitfield, lo stesso del Norman che
per anni ha scritto e prodotto i capolavori dei Temptations. Barrence Whitfield
con i suoi Savages è stato per un decennio (a cavallo tra gli anni ottanta e novanta)
un misconosciuto e forse fuori tempo antesignano di una black music imbastardita
di garage rock e umori bianchi.
Attento ad ascoltare musica rurale bianca
molto prima del suo maestro Solomon Burke (ricordiamo anche i due dischi a quattro
mani con Tom Russell del 1993, Cowboy Mambo e Hillbilly Voodoo), padre non riconosciuto
in quanto irriconoscibile di quello stile che oggi Black Joe Lewis riesce a vendere
(bene) come una novità, Whitfield dopo più di quindici anni di silenzio e sudate
su palchi di provincia, ha da qualche tempo "riunito la band", e già nel 2011
ci aveva fatto muovere non poco il fondoschiena con lo scoppiettante Savage
Kings. Dig Thy Savage Soul si spinge oltre e tiene fede
al titolo: la chitarra del fedele compare Peter Greenberg spadroneggia fin dalle
sventagliate punk dell'iniziale The Corner Man,
più o meno quello che avrebbero combinato i Replacements visitando gli studi della
Stax. Ma già la successiva My Baby Didn't Come Home
rivela quale sarà il gioco: Barrence urla, sbraita, gorgheggia brani di scrittura
elementare che spaziano da giri blues risaputi (Hangman's Token, Turn
Your Dumper Down) a rockabilly catapultati in quest'era da una macchina
del tempo tarata su cinquant'anni orsono (Hey Little
Girl, Blackjack). Il trucco però è proprio quello: far passare
per rivoluzionario il reazionario, citando magari i dischi incendiari del R.L.Burnside
di quindici anni fa, ma andando molto meno sul sottile nella scelta del repertorio
e dei temi.
In questo senso sia un brano rock (Oscar
Levant, Bread) o una ballata soul (I'm
Sad About It, Show Me baby), il tutto serve solo per liberare
l'incredibile energia del padrone di casa ed esaltare la voluta gran confusione
della sezione ritmica di Phil Lenker e Andy Jody. Condisce il tutto il sax di
Tom Quartulli, che più che il sound della Motown sembra quasi giocare a citare
lo Steve MacKay che devastò Funhouse degli Stooges, vera opera di riferimento
dei Savages. Il risultato gli dà comunque ragione: forse non c'è la stessa
sostanza dell'ultimo Black Joe Lewis, ma in una gara a colpi di decibel il vecchio
Barrence saprebbe ancora dargli filo da torcere. Dig Thy Savage Soul vi aprirà
l'anima a colpi di sberle. Il blues pare serva anche a questo.