Howlin'
Wolf Live
And Cookin' (At Alice's Revisited)
[Raven 2011]
Chester Burnett, "il lupo", un omone di quasi due metri per centotrenta chili
di stazza, era nato a White Point, Mississippi (nei pressi dell'accademia militare
di West Point), da una famiglia, come spesso capitava ai neri americani nei primi
anni del '900, povera, religiosa e molto numerosa. La madre lo buttò fuori di
casa, nemmeno adolescente, per essersi rifiutato di lavorare nei campi. Il nonno,
fissato con le leggende rurali cresciute intorno al fiume Mississippi, gli disse,
così trovandogli un soprannome professionale, di stare attento ai lupi che, dopo
averlo ghermito, avrebbero potuto sanzionarne il comportamento ribelle. All'ipotetico
castigo Burnett badò poco, ma la storia degli animali feroci gli rimase impressa
al punto da spingerlo a battezzarsi Howlin' Wolf, il lupo ululante, e a
seguire gli insegnamenti di Charley Patton, Blind Lemon Jefferson e Jimmie Rodgers
(i primi due li conobbe de visu, il terzo rimase un idolo inviolato della gioventù):
impugnate una chitarra e un'armonica, prese a peregrinare nelle piccole comunità
operaie sorte, durante gli anni '30, nei pressi del Delta del Mississippi. Il
suo primo disco "lungo", su etichetta Chess, giunse soltanto nel 1959 e fu un
mezzo shock. Moanin' In The Moonlight, con l'immagine del lupo intento
a rivolgere il proprio guaito verso un paesaggio brullo e lunare, recava ancora
le stimmate del country-blues più arcaico e campagnolo, ma portava con sé anche
i germi di una rivoluzione urbana (poi portata al massimo compimento da Muddy
Waters) che avrebbe condotto il blues a stretto contatto con le metropoli e con
i tormenti di razza dell'inurbamento nero.
Disgustato dalla spinta mollezza
di molti fratelli nel frattempo baciati da fortuna e successi (celebre un suo
diverbio con Son House, che rinvenne, ubriaco fradicio, nel backstage del Newport
Folk Festival del '66 e che accusò di aver sprecato le migliori opportunità della
propria vita), Howlin' Wolf decise negli anni '60 di portare alle estreme conseguenze
il flirt peccaminoso tra la radice contadina, remota e isolazionista della propria
ispirazione e il sound urbano dei grandi agglomerati cittadini sviluppatisi lungo
le due coste della nazione. La musica, per Wolf, era un mestiere, da affrontare
con impegno, dedizione e spirito di sacrificio; il pubblico un detentore di indulgenze,
soprattutto economiche, da blandire e irretire, con tutti i mezzi necessari. Persino
tramite soluzioni sgradevoli, nonché sgradite al diretto interessato: The Howlin'
Wolf Album ('69), detestato dal titolare e in parte ispirato ai coevi esperimenti
di Muddy Waters (si ascolti Electric Mud ['69]) e alle fiammate della Strato di
Jimi Hendrix, inzuppato di wah-wah e sferzanti cover da Willie Dixon, venne definito
da Wolf "merda di cane". Eppure vendette abbastanza bene, tanto da convincere
il lupo a imbarcarsi in un tour di supporto ad Alice Cooper (!) e a prendere un
biglietto aereo per Londra, allo scopo di registrare qualcosa in compagnia di
tutti quei giovanotti britannici - Eric Clapton, Bill Wyman, Steve Winwood, Charlie
Watts - che, alla guida dei loro gruppi, sostenevano di aver desunto dai suoi
brani un imprinting culturale imprescindibile. Ne risultò The London Sessions
('71), album discreto e tuttavia, ancora una volta, poco amato da un Wolf ormai
convinto di essersi allontanato troppo dal perimetro di gioco di propria pertinenza.
In parte infastidito dal grigiore dei cieli albionici, in parte provato
da un sincero disagio nei confronti di quegli spilungoni, e capelloni, e cannaioli,
e cocainomani, coi quali si era confrontato per qualche settimana pianificata
da esigenze di management, il lupo decise fosse il momento giusto per sfoderare
gli artigli e sfogare un pizzico di istintività. L'occasione propizia arrivò grazie
a un ingaggio, inaspettato, dell'Alice's Revisited, un bar di Chicago un tempo
mecca di hippies, folksters e contestatori di vario lignaggio. Il 26 gennaio del
'72 Howlin' Wolf vi piombò con tutta l'irruenza del suo blues urbano e stradaiolo,
stendendo al tappeto una platea di bianchi estasiati e neri rabbiosi. Live
And Cookin' (At Alice's Revisited), licenziato in origine dalla neonata
Geffen, fu l'unico album dal vivo della sua longeva carriera e un assalto ai sensi,
all'erotismo sudato e alla furia rapinosa del blues orchestrato con gesto assassino
dalla sei corde torrenziale di Hubert Sumlin, dal basso Fender di David Myers,
dal drumming feroce di Fred Below, dal piano barrelhouse di Sunnyland Slim, dal
sax ubriaco e cavernoso di Eddie Shaw. Devastante, concentrato, bruciante e vorticoso,
Live And Cookin' mostrò un Howlin' Wolf ai vertici di un potenziale costruito
sulla collera e la voluttà di una popolazione coloured fino ad allora tenuta ai
margini oppure esibita alla stregua di un esotico fenomeno da baraccone.
Nel
disco, oggi ristampato in CD dall'australiana Raven con l'aggiunta del funky martellante
di una The Big House fradicia di soul e di
una Mr Airplane Man così intrisa di magia,
esoterismi e perdizione da far impallidire i Gun Club, non dovete cercare traccia
del cleavage sociologico del decennio precedente (rimosso con un ghigno mefistofelico),
solo la radicalizzazione del solecismo wolfiano, perpetrato col preciso intento
di sventrare la purezza della sintassi rurale del blues. In una tempesta di rasoiate
di chitarra e scivolate pianistiche, frustate di armonica e disarticolazioni di
batteria, con un sax svelto a infilarsi in tutti i pertugi d'un sordido racconto
urbano, Howlin' Wolf cantò, grugnì e ululò a pieni polmoni, disseminando il disco
di un ringhiare sordo e brutale, protesi emotiva ed estrema di una coscienza di
razza e di classe ridotta a brandello di bestialità sessuale. Come intrappolato
in un incubo di cui non poteva conoscere l'epilogo, il Wolf di Live And Cookin'
incarnò il nero recluso nella gabbia di cemento della città, senza speranza, senza
riscatto, senza sogni e senza risarcimenti al di fuori di quelli concessi da una
serata di efferato blues elettrico. Dal lentaccio della sontuosa Call
Me The Wolf alle batoste della scartavetrata When
I Laid Down I Was Troubled (otto minuti travolgenti), dalla melodia
rockeggiante di un'intensa Sittin' On Top Of The World
alla valanga sudista di Mean Mistreater
(Muddy Waters), passando attraverso un repertorio che evita di proposito i pezzi
più conosciuti per ribaltare e dilatare un pugno di gemme da esegeti della materia,
Wolf sputò nel microfono ogni grammo di risentimento.
Dicono che, all'apice
del successo, fosse tornato dalla madre che l'aveva ripudiato, offrendole soldi,
sostegno pratico e una solitudine impossibile da grattare via. Dicono che la madre
lo respinse una seconda volta, rivolgendogli l'accusa di aver abbracciato la musica
del diavolo. Sull'episodio non esiste datazione certa, ma qualcosa mi dice che
Howlin' Wolf l'avesse già sperimentato, o lo presagisse, assumendo a sé i blues
come una cicatrice diffusa in modo capillare su tutto il corpo e abbandonandosi
all'amarezza della vita e delle sue promesse dissolte di felicità ed equilibrio,
quando decise di interpretare, quella sera a Chicago, I
Had A Dream, un vecchio rock-blues di Big Bill Broonzy. Il blues era
ed è tutto lì, nel titolo della canzone ripetuto in tono ossessivo, nel picchiare
ottuso della sezione ritmica finché il nostro - estenuato - non chiude la partita:
"L'altra notte ho fatto un sogno / Ho sognato che un uomo si prendeva la mia donna
/ L'altra notte ho fatto un sogno / Mi sono svegliato / E non avevo una cazzo
di vita". (Gianfranco
Callieri)