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Stephen Markley
Ohio

[Einaudi pp. 544]



“Perdiamo le persone Stacey. E non è mai giusto, non è mai accettabile, e c’è sempre qualcosa che non torna” (Bill Ashcraft, Ohio)

La parata cittadina organizzata per i funerali di Rick Brinklan, uno dei tanti ventenni tornati dall’Iraq dentro una bara, apre uno squarcio sull’America dolente (e decadente) degli anni Duemila. Stephen Markley disegna il toccante incipit di Ohio con uno stratagemma: ci inchioda alla dimensione del dolore di un tempo sospeso tra le vite di gente comune, in quella provincia altrettanto comune che dovrebbe evocare il cuore della nazione, sempre pronta a chiamare i suoi figli al sacrificio. La storia vera comincia dopo, ed è un ottovolante di ricordi, flashback, andirivieni fra adolescenza e vita adulta che coinvolgerà tutti i protagonisti di Ohio, un romanzo d’esordio potente, a volte azzardato, con tutta la foga di un giovane scrittore ma anche graffi che da parecchio non si leggevano su una pagina.

“In un’allucinogena notte estiva del 2013”
, come sentenzia efficamente Markley, “quattro automobili e i relativi occupanti convergono su questa cittadina dell’Ohio”: dentro ci sono i corpi e le esistenze lacerate - dai sensi di colpa, dai propri luoghi oscuri, oltre che da dosi abbondanti di alcol e droga - di Bill Ashcraft, Stacey Moore, Dan Eaton e Tina Ross, ex liceali, amici dello scomparso Rick Brinklan, che hanno incrociato per un periodo i loro amori e le loro speranze a New Canaan. Letteralmente si tratta di un buco d’America, con i suoi Walmart, le sue tavole calde e bar, la stazione di polizia, la squadra di football e ogni simbolico riferimento a un paese diviso e combattutto, negli anni del terrorismo globale e della guerra infinita. Attorno ai quattro, che capeggiano i macro-capitoli di Ohio intrecciando avanti e indetro le loro storie come un gioco del destino (perché in una piccola città, si sa, si finisce sempre per conoscersi e ritrovarsi tutti quanti), ci sono altre vite, altri amici di gioventù, importanti e rivelatori quanto e forse più di loro, a mano a mano che le pagine crescono: la misteriosa e indipendente figura di Lisa Han, il violento carattere di Todd Beaufort, la folle e pericolosa bellezza di Kaylyn Lynn, il sensibile musicista Ben Harrington, e ancora madri e padri, fratelli, insegnanti, volti che hanno scandito la crescita e poi l’abbandono a New Canaan.

Markley li fa collidere spesso in maniera sconsiderata, tra il presente, con i quattro principali attori che fanno il loro ingresso nel teatro della cittadina durante la stessa notte, e i fantasmi del passato che riemergono. Ohio diventa così l’implacabile scandire della perdita dell’innocenza, come giustamente è stato descritto, quella dei protagonisti, ormai trentenni e alla deriva, ma anche di New Canaan, dell’America e degli americani. “L’amore può nascere a comando e la violenza può essere aberrante, ma entrambi producono reazioni a catena”, sentenzia Bill Ashcraft, ragazzo dilaniato dai mille sogni di rivolta politica e sociale nei confronti di un paese che non ama e non capisce: ha ragione, perché la vicenda che scorre sotterranea in Ohio e a forza di strappi emerge come un fiume in piena è proprio una catena di eventi quasi improbabili per coincidenze, e che pure sembrano alla lettura inevitabili. Qui sta la forza di Markley e della sua scrittura, piena zeppa di quella crudele ferocia che solo le memorie dell’adolescenza di questi ragazzi può lasciare affiorare, con un bagaglio di espressioni, sesso, e sentimenti.

Tutto è congegnato perché brandelli di verità, confessioni e gesti violenti emergano dalla pagine fino al “termine della notte”, come Stephen Markley intitola la chiusura del romanzo, allor quando i pezzi torneranno più o meno al loro posto, come ci trovassimo nei risvolti di autentico noir di provincia, ma niente affatto con l’idea moralistica di ristabilire l’ordine: quest’ultimo era saltato fin dall’inizio in Ohio e non sembra interessare il cuore della vicenda, che alterna senso di compassione e condanna, buio e luce, innocenza, appunto, e totale abuso. Come la vita.

(Fabio Cerbone)

 

Larry Watson
Montana 1948

[Mattioli 1885
pp. 148
]




Stando a un vecchio adagio riportato da Thomas McGuane in un dialogo di Solo un cielo blu, “il Montana è stato costruito dalla ferrovia”. Call e Augustus, i protagonisti di Lonesome Dove di Larry McMurtry, potrebbero dissentire visto che lo vedevano come la terra promessa e, per arrivarci con le loro mandrie, hanno dovuto combattere contro tutto e tutti. In Canada, uno dei personaggi di Richard Ford diceva: “Da queste parti ci sono solo vacche e grano”. Eppure c’è qualcosa in quell’ambiente, con la polvere che riempie le strade e il vento pieno di terra, che, nonostante gli spazi infiniti appare angusto, imprigionato nelle dinamiche delle città di provincia, ben rappresentate dalla personalità della famiglia Hayden.

Anche David, il giovane protagonista di Montana 1948, nonché voce narrante, sente sulla pelle “un certo rispetto che non avevo avuto bisogno di guadagnarmi”, mentre cammina per Bentrock. È l’unico rappresentante dell’ultima generazione degli Hayden, nei tratti caratteriali ben disegnati da Larry Watson: il capostipite, Julian, nonno di David, e padre di Wesley e Frank, è un uomo della frontiera “ricco e potente”, che ha inaugurato la saga degli sceriffi Hayden nella contea di Mercer. Frank, il figlio maggiore, è tornato dalla guerra come un eroe, è sposato con Gloria ed è un medico. È più brillante e divertente, anche se dal suo matrimonio non sono ancora arrivati figli. Il contrasto tra i fratelli anticipa lo scontro vero e proprio. Wesley procede per inerzia e più che uno sceriffo, ruolo che ha ricevuto per investitura dal padre, pare un travet della prateria. Anche la pistola d’ordinanza (piccola e italiana!), che definisce uno status, è lontana anni luce dallo standard abituale del West e dell’America in generale dove, si sa, il culto delle armi è sancito dalla costituzione.

In tutto Montana 1948 viene sparato un singolo colpo di fucile, ma il suo eco rimbomba nelle valli e a quel punto le dinamiche famigliari, viste con gli occhi di David, sono già collassate. Lui adora tutti, ma è innamorato della governante sioux, Marie Piccolo Soldato. Quando Marie si ammala di polmonite, è spontaneo chiamare Frank al suo capezzale, ma la reazione della donna sorprende tutti. Non vuole essere sfiorata dal dottore. Da lì emerge una sordida storia di abusi sessuali del fratello maggiore degli Hayden nei confronti delle donne indiane. David, attonito, si chiede: “Quanti altri segreti la nostra città aveva accettato di mantenere?”. Il dilemma, molto shakespeariano, deflagra in multiple contrapposizioni (fratello contro fratello, figlio versus padre, cowboy e indiani, uomini e donne) nello scenario della casa di Wesley che arresta Frank ma, per precauzione, invece di condurlo nelle celle del tribunale, dall’altra parte della strada, lo chiude nel seminterrato. David assiste, impotente e titubante, all’evolversi del conflitto tra le mura casalinghe: “Non ero sicuro di cosa fosse diventata la nostra famiglia in quei giorni difficili, ma sapevo che dovevamo stare vicini. Eravamo sotto assedio. Dovevamo sostenere meglio che potevamo le pareti della nostra casa”. È grazie al suo punto di vista che Larry Watson può raccontare gli sviluppi che travolgono la famiglia Hayden. È un modo brillante per vedere la storia di Montana 1948 da più angolazioni perché, come annota David, quel momento “segnò una tale frattura nella nostra vita, un abisso che divise definitivamente ciò che eravamo, e che non saremmo più potuti essere, da ciò che saremmo diventati, che bisognerebbe trovare un’unità di misura più adeguata”. Da lì il destino degli Hayden è sconvolto per sempre. Le peculiari caratteristiche morfologiche del Montana hanno un peso determinante, anche se Larry Watson pone al centro dell’attenzione le vicende umane.

L’equilibrio di Montana 1948 sta esattamente tra i silenzi della wilderness e le chiacchiere cittadine, tra gli echi delle montagne e il rumore dei pensieri. La scrittura si insinua proprio in quella dimensione, rilevando con eleganza e senso della misura l’attrito tra le pause implicite alla vastità del territorio del Montana con gli scatti imprevedibili degli esseri umani che lo abitano. Un piccolo classico, una riscoperta obbligatoria.

(Marco Denti)

 

Willy Vlautin
Motel Life

[Jimenez pp. 202 ]




In prospettiva, nel suo esordio Willy Vlautin esplorava già temi che sarebbero emersi in primo piano nei romanzi successivi: la boxe (in Io sarò qualcuno), i cavalli (in La ballata di Charley Thompson) come se nella Motel Life ci fossero tutti gli elementi fondamentali della sua scrittura. Soprattutto c’era una direzione precisa, nell’avvicinarsi al buio di esistenze aride e smarrite, dove “le cose vanno e vengono come le onde”, ma le persone sono abbandonate come relitti sulla spiaggia. I maggiori rappresentanti di un territorio, quello della Motel Life di Willy Vlautin, in cui tutto è rovinato, arrugginito, scartato e di seconda mano, dalla automobili alle suppellettili, sono i fratelli Flannigan. Jerry Lee ha investito un ragazzo ed è in preda al panico, Frank lo asseconda come ha sempre fatto, perché si compensano a vicenda, ma sono comunque da tempo alla deriva. Vagano per Reno, ricordando il passato, cercando una soluzione che non c’è. Sono impacciati, affamati, disorientati da una costante nebbia alcolica, e nel gelo dell’inverno, il motel diventa una casa istantanea, un riparo provvisorio, e transitorio proprio come ogni altra cosa.

La strada resta l’unica opportunità per fuggire perché Frank e Jerry Lee non fanno molto oltre a guardare la televisione (una noia assoluta), arrancare nella neve e bere birra (i pacchi da sei arrivano fino a dodici nel corso del romanzo). L’unico momento di fragile felicità che ricordano è quando “avevamo intorno la città, la gente e il traffico, le luci dei casinò e il rumore, ma era come se per noi andasse tutto bene, come se tutto fosse perfetto, come se fossimo le uniche due persone al mondo che avessero importanza, le uniche che potevano vedere quanto erano belle le luci della città”. Trascinandosi senza alcuna idea, finisce che Jerry Lee, travolto dal rimorso, tenta il suicidio, e gli viene male anche quello, visto che finisce per spararsi in una gamba. Ma Frank è sempre presente, pronto a celebrare un legame indissolubile raccontando al fratello le storie che si inventa per sopravvivere. Iris, uno dei suoi personaggi, spiega bene il senso di resistere alle spinte che ci vogliono “senza differenze, senza desideri, con tutto il peso del mondo sulle spalle, che ci schiaccia e ci rende tutti uguali”. Solo che per Iris contano soltanto “le quattro parole fondamentali della vita: buona conoscenza delle pistole”, un motto che annuncia l’inevitabile destino della sua storia.

D’altra parte in tutta la Motel Life l’unica persona “serena e in pace con se stessa” si chiama Marge, ed è soltanto un disegno, frutto dell’estro di Jerry Lee, appeso sulla parete dell’ennesimo motel. La speranza è meglio di niente, d’accordo, ma vivere come i fratelli Flannigan condensa una condizione umana faticosa oltre che dolorosa. Non bastasse, Tommy, perché ci sono perdenti capaci di scommettere sulle sconfitte degli altri, spinge Frank a puntare i suoi ultimi soldi. Del resto siamo a Reno, e il gioco d’azzardo è un altro dei temi ricorrenti, visto che risale anche al padre dei Finnigan, ma è una sfida con la vita. “Anche i perdenti sono fortunati a volte” cantava Tom Petty in Even The Losers e infatti Frank riesce a piazzare una bella vincita sullo scontro Tyson versus Holyfield e con il bottino si compra una macchina (americana, pur sapendo che quelle giapponesi sono più affidabili: un’altra scelta frutto dell’attitudine da loser) per partire ancora una volta. Oltre a lasciarsi alle spalle Reno, Frank intende ritrovare Annie James, che aveva lasciato, anni prima, colta anche lei in una situazione oltre ai limiti della decenza.

La galleria di disperati è affollata e mutevole, ma i personaggi sono vividi (compreso un cane che entra a far parte della compagnia), le immagini colpiscono, il tono della scrittura è perfetto perché Motel Life come scrive Willy Vlautin nella postfazione è “un romanzo sulla nostalgia di casa”, ovvero “un sogno a occhi aperti, un sogno triste”, con la colonna sonora di Willie Nelson e Johnny Cash, gente che è sempre stata dalla parte delle vittime.

(Marco Denti)

 

Jesmyn Ward
La linea del sangue

[NNEditore pp. 380]




Nel giorno del diploma, i gemelli Joshua e Christophe si lanciano nel fiume. Finita la scuola, gli si spalanca un mondo davanti. Ma vivono a Bois Sauvage, la contea che da qui sarà lo sfondo anche di Salvare le ossa e Canta, spirito, canta. Per seguire La linea del sangue bisogna sprofondare nel bayou, che è un ecosistema tra acqua dolce e salata, tra terra e mare che si mischiano grazie a vento e correnti e nel caso specifico di Bois Sauvage anche tra Mississippi e Louisiana, dove “piccole comunità autonome” si sono insediate in altrettante enclavi.

Il terreno, a cui Jesmyn Ward si dedica in modo ossessivo, è tutto: le strade sono ricoperte di gusci d’ostrica, il fango è onnipresente, la vegetazione nasconde insidie a ogni passo e il clima è ostico. L’afa è insopportabile e il caldo, che non concede tregua, brucia sulla pelle, rallenta i movimenti, alimenta la noia. La convivenza con l’ambiente complica i rapporti, anche se la famiglia, che resta sempre incompleta, è ancora un punto di riferimento inamovibile. Se in qualche modo resta funzionale, lo deve ai rami femminili: Joshua e Christophe sono stati cresciuti da Ma-mee, che è la nonna. È quasi cieca, un dettaglio non relativo, perché gli occhi spesso ingannano e lei, in fondo, riesce a vedere meglio di tutti gli altri. E sente la tempesta in arrivo perché a Bois Sauvage il futuro è un elenco di posti in cui fare domanda di lavoro, una specie di penitenza verso occupazioni dure, ripetitive, se non umilianti. Joshua è il primo a trovare un impiego, come scaricatore di porto. Un mestiere faticoso e senza sbocchi, ma onesto. Christophe invece segue la scia del cugino Dunny e comincia a spacciare. All’inizio è solo erba, poi cominciano a vedersi anche coca e crack.

Come si conviene, è lì che La linea del sangue si spezza: a ridosso del quattro luglio, con le tavole imbandite e i fuochi artificiali nel cielo, l’armonia tra i due fratelli s’infrange negli scorci di vita che hanno intravisto. Joshua ha trovato un suo posto e una ragazza, Laila. Christophe scompare per intere giornate, per poi riapparire con le tasche piene di rotoli di dollari. Ma-mee sente che qualcosa non va, anche perché, prima o poi, tutti tornano a Bois Sauvage: arriva Cille, la madre dei gemelli, e ricompare Sandman alias Samuel, il padre, che ormai è un tossico senza speranza. Il quadro famigliare è completo come uno specchio infranto che si regge soltanto per la cornice: tra loro mancano le parole, il tempo, la consuetudine. Jesmyn Ward interpreta con scrupolosa lentezza ogni movimento, la percezione dei corpi, i gesti quotidiani che nascondono e insieme rivelano i turbamenti, le incomprensioni e le inquietudini dei protagonisti. Ma-mee, che è un po’ il deus ex machina di Bois Sauvage, nei momenti più imbarazzanti e difficili riordina e cucina, quasi seguendo un riflesso condizionato, perché il cibo (e seguendo con attenzione La linea del sangue si scopre un dettagliato menù della saporita gastronomia del bayou) è l’unico momento di condivisione. Le fratture tra Joshua e Christophe, fra i gemelli, Cille e Sandman, l’intrufolarsi nell’ambiguità, dove domina la paranoia e basta una macchina della polizia o il volto di uno sconosciuto a scatenare il panico, portano evidentemente a condizioni dove il sangue, alla fine, non sarà solo metaforico. L’ipnotico racconto di Jesmyn Ward, con l’apparizione dei personaggi che da lì si faranno largo nella trilogia di Bois Sauvage, è insieme aspro, torbido e sensuale, ma sta parlando di una realtà che deve pagare le cure ospedaliere a rate, perché i confini del bayou sono indefiniti, ma sono comunque nell’America disastrata del ventunesimo secolo. Ed è così che La linea del sangue comincia e finisce in riva al fiume, dove il suo senso spicciolo è palese: all’inizio la vita è un tuffo a occhi chiusi, poi peschi un po’ quello che trovi.

Resta da dire dell’affollata colonna sonora con cui Jesmyn Ward punteggia La linea del sangue: Harold Melvin and the Blue Notes, Clarence Carter, Otis Redding, Al Green, Bobby Blue Band, gli Earth, Wind & Fire e Sam Cooke. È un’ottima selezione di soul e rhythm and blues ma La linea del sangue ha più la cadenza tambureggiante e insistente di una canzone dei Neville Brothers, la famiglia musicale più nota a New Orleans. Il titolo è Sons And Daughters e l’album da cui è tratta, guarda caso, si chiama Brother’s Keeper e (sentire per credere) sembra uscire direttamente dalla radio di Ma-mee.

(Marco Denti)

 


 


<Credits>