Travelin' Band
So you want to be a rock and roll star?
Then listen now to what I say
Just get an electric guitar
Then take some time and learn how to play
And with your hair swung right
And your pants too tight
It's gonna be all right
(So You Want to Be a Rock'N'Roll Star, The Byrds)
George Hunter non era esattamente quello che
si definisce un musicista: si limitava a battere un tamburello e provava
a cantare secondo principi tutti suoi. Aveva però qualche idea bizzarra
in testa e tanto gli bastava. E non era forse questa la magia del rock'n'roll?
A metà degli anni sessanta mettere in piedi una band era divenata una
necessità, un comandamento che andava aggiunto alla costituzione americana,
se è vero, come ebbe modo di ribadire qualche anno più tardi Lester Bangs,
che il rock'n'roll è la più democratica delle forme d'arte: "mettete
insieme un gruppetto di amici, compratevi una cassa di birra e un po'
d'erba, aggiungeteci un paio di chitarre, un basso e una batteria, e a
questo punto potreste anhe azzardare qualche sogno di gloria".
Dev'essere andata proprio così la prima volta
che i Charlatans hanno provato ad unire insieme le note di una
canzone: San Francisco non offriva ancora grandi opportunità, ma l'idea
di seguire le orme di quei giovanotti inglesi che stavano invadendo le
radio americane era un'attrazione irresistibile. Ad inaugurare la stagione
della cosiddetta "Britsh Invasion" ci avevano pensato i quattro di Liverpool:
nella primavera del 1963 infatti She Loves You e I
Wanna Hold Your Hand dei Beatles erano schizzate in vetta
alle classifiche, lasciando al palo buona parte dei musicisti locali.
Sembrava già preistoria parlare dei tempi di Elvis, eppure non erano passati
nemmeno dieci anni. Dopo i Beatles sarebbe toccato, uno di seguito all'altro,
agli Animals, ai Rolling Stones, agli Yardbirds, ai Manfred Mann: un'onda
inarrestabile che cominciava a mietere le sue "vittime".
Nelle cantine dell'America di provincia si svezzava infatti una nuova
generazione che aveva intuito un concetto essenziale: se gli inglesi stavano
sbaragliando il campo con un generale saccheggio delle radici della musica
americana, soprattutto quella di matrice nera, predendo a prestito i riff
di Chuck Berry e le canzoni di Muddy Waters, per quale motivo non si sarebbe
dovuto seguire quell'esempio proprio nella casa natale del rock'n'roll?
Evidentemente occorreva qualche aggiustamento, bisognava soprattutto ribadire
le proprie origini, anche perché la folk music era un infinito patrimonio,
tutto americano, da riscoprire. La sfida l'aveva lanciata Bob Dylan
ed era stato una specie di big ben: si era inventato il folk rock, aveva
messo in soffitta le chitarre acustiche e scandalizzato i puristi con
la sua esibizione al Newport festival, spalleggiato dalla Paul Butterfield
Blues Band. Quel 1965 sarebbe stato uno spartiacque da cui il rock'n'roll
avrebbe assunto la sua forma adulta.
George Hunter, come molti ragazzi della sua generazione, ne aveva
intuito l'enorme potenzialità. E poi non gli mancava di certo la fantasia:
aveva sempre avuto una predilezione per l'immagine e da studente di arte
alla San Francisco State University si era fatto un nome grazie ai suoi
stravaganti progetti. Il fascino esercitato su di lui da un'idea di "Vechia
America", epoca di pionieri e conquiste, aveva completato l'opera: i Charlatans
si materializzavano così in una banda di hippie sui generis, che prevedeva
un abbigliamento in puro stile cowboy e qualche pistola rigorosamente
carica, giusto per aumentare la presenza scenica e qualche volta per sparare
nei vicini canyon. Il repertorio pescava, come gran parte dei musicisti
del tempo, dalla scuola delle cosiddette jug band, un folk-blues di strada
riverniciato con i colori della nuova stagione psichedelica alle porte.
In realtà quest'ultima era ben lungi dal materializzarsi all'orizzonte
quando la band fece le sue prime apparizioni al Red Dog Saloon
di Virginia City, in Nevada. L'esperienza da selvaggio west che offriva
il locale era il luogo più adatto per accogliere i nuovi arrivati da Frisco:
in città il quartiere di Haight Ashbury cominciava lentamente a popolarsi
di freak e a far parlare di sé, ma il "San Francisco sound"
nel marzo del 1965 era un miraggio lontano qualche mese e i Charlatans
degli ambasciatori in terra straniera, in questo davvero dei "pionieri".
Mark Ubowsky, Chandler Laughing e Don Works avevano
trasformato il vetusto hotel cittadino, il Comstock Lodge, in un autetico
saloon da film western, il Red Dog appunto, con l'aggiunta di una colonna
sonora a base di rock'n'roll, alterato a dovere dai nuovi ritrovati chimici
in circolazione. Diventare la house band del luogo si era rivelato un
gioco da ragazzi: erano tutti troppo strafatti di acido per rendersi conto
che i Charlatans non avevano la minima cognizione di come si dovesse suonare
in pubblico. Questa almeno fu la prima impressione al loro debutto. Hunter
aveva reclutato Richard Olsen e Mike Wilhem nei dintorni
della citadella universitaria di San Francisco, vicino al Golden Gate
Park, confidando nelle loro approsimative conoscenze degli strumenti,
completando la formazione con il piano di Mike Ferguson e la batteria
di Dan Hicks, l'unico che realmente potesse fregiarsi dell'appellativo
di musicista. Passati in rassegna i negozietti di anticaglie del quartiere,
da cui nascerà il modello del famoso Psychedelic Shop dei fratelli
Thelin in Haight Street, si erano presentati all'appello della prima serata
con un look che aveva entusiasmato tutti i presenti, anche per via di
quegli eccentrici poster a lettere arzigogolate che avrebbero fatto scuola.
Nella testa di Hunter quella messinscena western, studiata quasi a tavolino,
doveva rappresentare una sorta di resistenza alla società consumistica,
un ritorno ai valori di un tempo, cercando allo stesso modo di sposarli
con il nuovo linguaggio che band come i Rolling Stones avevano fatto conoscere
al pubblico americano. Il contorno offerto dall'LSD, che proprio in quei
giorni andava affermandosi come panacea di un'intero movimento, non aveva
fatto altro che dilatare e sospingere quei sogni di gloria.
La realtà era un poco diversa: i Charlatans, seppure agitatori della scena
di Haight Ashbury e quasi involontariamente capiscuola di una comunità,
non avevano il talento per restare al passo coi tempi. L'avventura in
Nevada durò qualche mese prima di chiudere baracca e burattini: la band
costretta a fuggire di gran carriera dopo l'arresto di Wilhem per possesso
di droga e lo stesso Red Dog Saloon fatto chiudere dalle autorità locali,
preoccupate da quella insopportabile calata di barbuti e capelloni senza
meta. Quando lo scrittore Ken Kesey decise di fare tappa da quelle
parti con il bus dei suoi fedeli Pranksters si trovò davanti un
vecchio hotel ormai svuotato. Dovette fare ritorno all'ovile un po' sconsolato
per la festa che non si sarebbe svolta secondo i piani prestabiliti.
Tuttavia, per quanto assurdo si fosse rivelato quel periodo a Virginia
City, si sarebbe imposto come il modello da esportare in tutti i piccoli
club di Frisco. I Charlatans invece, come spesso capita ai precursori,
vivacchiarono ai margini della scena per qualche anno, mettendo il loro
gettone di presenza in molte manifestazioni al Golden Gate Park. Possedevano
quel carattere naif che li faceva stare a galla nella corrente dell'epoca:
diventarono un culto ben oltre le effettive testimonianze discografiche.
Molte incomprensioni, qualche abbandono, George Hunter che si ostinava
a voler essere un cantante, registrazioni mai andate a buon fine, come
quelle tenutesi negli studi della piccola Autumn records di proprietà
del dj Tom Donahue. Quando finalmente ebbero ultimato il loro lp
d'esordio, nel 1969, l'estate dell'amore era solo un ricordo sbiadito
e il loro primordiale folk, essenzialmente acustico nella forma, un retaggio
passato della prima era del San Francisco sound.
Restavano nondimeno la prova vivente di quanto sosteneva Lester Bangs:
al giro di boa degli anni sessanta il rock'n'roll era veramente la personificazione
del mito americano, una terra promessa fatta di occasioni da prendere
al volo, dove un giovane armato di chitarra - poco importa se la sapesse
veramente suonare - poteva magicamente creare qualcosa, "il sogno utopico
di fare di chiunque un artista".
E per un breve lasso di tempo, quello necessario a preparare il terreno
per la futura esplosione della psichedelia californiana, fu davvero così
che si svolsero i fatti. Qualche anno più tardi lo avrebbero chiamato
"garage" o protopunk, a sottolineare l'ascendente che questa ondata di
formazioni avrebbe avuto sulla rivoluzionaria comparsa del punk-rock.
D'altronde le attitudini nell'affrontare la materia erano simili: tutto
era maledettamente primitivo e senza controllo, i soliti accordi blues
rivoltati però sottosopra e caricati dall'effetto del distorsore della
chitarra.
Così era nata Louie Louie, un brano che il povero Richard
Berry, autore della canzone, si era visto soffiare sotto il naso per ritrovarselo
sotto centinaia di forme disparate. Un testo storpiato in cui quello che
contava non era certo il contenuto ma il "sound" generato tra parole spesso
incomprensibili e musica, una frenesia ritmica che prendeva per i capelli
il rhythm'n'blues e lo ributtava nella mischia completamente trasformato.
Furuno i Kingsmen e Paul Revere & the Raiders, band provenienti
dalla scena locale di Portland, Oregon, ad agguantare per primi il treno
di Louie Louie. Dopo il boom della surf music, la costa del Pacifico restava
dunque il luogo ideale per accendere la miccia: da nord a sud erano palpabili
le conseguenze del nuovo vento inglese.
Nella fredda Seattle ad esempio si muovevano i Sonics: Gerry
Roslie cantava come fosse un Little Richard bianco e il rozzo sound
elettrico della band faceva breccia nelle programmazioni radiofoniche.
Al polo opposto dell'assolata San Diego i chicani Three Midniters
e Premiers pasticciavano i Rolling Stones con i ritmi più spensierati
del surf. Anche San Francisco salutava i suoi primi eroi beat: i Beau
Brummels erano stati da poco scritturati dalla minuscola Autumn records
e avevano sorpredentemente lanciato la loro Laugh Laugh nella Top 20.
La democrazia del garage implicava però che il rock'n'roll si diffondesse
come una macchia sul territorio ed ogni angolo d'America conoscesse i
suoi eroi locali. In Florida erano spuntati i We the People, un'accozzaglia
di transfughi da diverse garage band del luogo; nel New Jersey i Knickerbockers
si producevano nella migliore scopiazzatura dei Beatles mai sentita con
il brano Lies; nel Michigan spadroneggivano Question
& the Mysterians; Boston era attraversata dalla febbre dei Remains
e dei Barbarians, questi ultimi passati alla storia anche grazie
al loro batterista monco Moulty, appositamente fornito di un uncino; New
York si affacciava timidamente nella calca con i Vagrants da Long
island e gli Strangeloves da Brooklin; anche Los Angeles aveva
i suoi teppisti con i Leaves e la loro acida versione di Hey
Joe. C'era infine chi, come gli Shadows of Knight da Chicago,
dichiarava con una certa sfacciataggine guerra aperta nei confronti di
Animals e Stones: il blues in città era un'istituzione ed era ora di riportare
il rock'n'roll nella tana del lupo. Salvo poi smentirsi clamorosamente
facendo il verso ai Them di Van Morrison, di cui ripresero la famosa Gloria.
L'incontro evidentemente era perso in partenza, ma restava l'attestazione
di una voglia di "riscatto" che serpeggiava per l'America di provincia
e che avrebbe presto avuto le sue ricadute. Nonostante San Francisco non
ricoprisse ancora il ruolo di prima donna, a cavallo tra il 1965 e il
1966 la sterzata psichedelica prese rapidamente forma e la California
si ritrovò esattamente al centro dell'attenzione. Erano bastati due anni
scarsi per assimilare la lezione della British Invasion. Gli studi
di registrazione espandevano la gamma della sperimentazione: distorsori,
effetti fuzz tone, feedback lancinanti, scale blues mischiate ad uno spicciolo
misticismo preso a prestito dalla musica indiana - si parlava già di un
ibrido chiamato "raga-rock" - cominciavano a produrre i loro effetti.
Il momento era propizio per scrivere i propri standard e non guardare
più con soggezione aldilà dell'oceano.
Quella che Lester Bangs definì come la "più abominevole scopiazzatura
di tutti i tempi degli Yardbirds" fu invece per i Count Five
la chiave del successo: immediato, spontaneo, ma anche terribilmente effimero,
come era destino per la maggior parte di quei gruppi. Formatisi a San
Josè, sud di Frisco, nel 1965, i Count Five fecero un salto di qualità
grazie all'apparizione del cantante e chitarrista Sean Byrne: la
sua Psychotic Reaction solo un anno più tardi era già in
vetta alle classifiche, annunciando per loro un grande futuro. Quest'ultimo
purtroppo non si realizzò mai, gli Yardbirds non fecero causa per quei
giri di chitarra così familiari, ma il rock della Baia si infiammò. In
città i Warlocks di Jerry Garcia si davano da fare già da
parecchio tempo e meditavano sul cambio di nome, ma nei sotterranei era
così alta l'eccitazione che spuntavano nuovi arrivati da luoghi impensabili.
Gli Oxford Circle erano orginari di Davis, vicino a Sacramento,
ma solo all'Avalon Ballroom di San Francisco, nel 1966, conosceranno la
gloria. Un culto che nasceva da un solo singolo: Foolish Woman/
Mind Destruction rappresentava la quintessenza del garage rock,
un concentrato di rozzi riff blues che nella dimensione dal vivo si espandevano
a dismisura, anticipando i sogni acidi dei Grateful Dead. Passeggere quanto
si vuole queste formazioni non furono solo semplici testimoni del loro
tempo, piuttosto le fondamenta sulle quali si andava costruendo il mito
della psichedelia. Nella cerchia di Haight-Ashbury infatti non si coltivaveranno
soltanto le radici dei futuri Dead e Jefferson Airplane: ai margini sopravviveva
un groviglio di musicisti che dell'acid rock coglievano solo alcuni aspetti,
aumentando però il mito della terra promessa californiana.
Ancor più misconosciuti dei Charlatans, e altrettanto inconcludenti, i
Mistery Trend prestavano regolarmente gli amplificatori durante
le prime serate di apertura del Fillmore di Bill Graham, aprivano per
i Jefferson Airplane e i Great Society al Matrix club, ma non si preoccupavano
molto di incidere. Il loro passato li teneva legati al rock'n'roll più
genuino dei primordi, al rhythm'n'blues captato alla radio e di psichedelia
se ne intravedeva solo qualche ombra. Era soprattutto una band in costante
trasformazione, un viatico di esperienze che avrebbe lasciato tracce di
sé sparse in ogni angolo del quartiere più famoso della storia del rock,
senza mai effettivamente averne costruito la mitologia. D'altronde non
occorreva affatto passare da Haight Ashbury per fregiarsi del titolo di
psichedelici: il tempo, le storie e i successi hanno forse riscritto l'importanza
dei singoli interpreti di quella stagione, ma ancora oggi qualcuno sarebbe
pronto a giurare che senza i texani 13th Floor Elevators di psichedelia
oggi non si potrebbe nemmeno parlare.
Dalle parti di Austin il garage non era un fenomeno di passaggio: i Mouse
& the Traps, con la loro felice imitazione del Dylan di Highway 61,
e il Sir Douglas Quintet, che aveva sposato la tradizione regionale
del tex-mex con il beat erano già divenuti piccoli eroi regionali, ma
la calata degli Elevators aveva cambiato le carte in tavola. Psychedelic
Sounds of the 13th Floor Elevators, l'esordio del 1966, e il successivo,
altrettanto sconvolgente, Easter Everywhere, restano tutt'oggi
veri e propri oggetti dei desideri, un vaso di pandora che lascia scoprire
l'essenza più pura e ossessionante della materia lisergica. Pellegrini
sulla rotta tra la terra d'origine e la California, dove verrano sempre
accolti come degli ambasciatori, i 13th Floor Elevators costruiscono una
leggenda basata sul canto allucinato, aggressivo di Rocky Erickson,
lo sconvolto leader del gruppo, e sul caratteristico suono del jug elettrico,
una autetica diavoleria inventata e suonata da Tommy Hall, che
rivede in chiave moderna il classico "jug", la bottiglia di whiskey in
cui si soffiava per creare i bassi nelle vecchie folk song pre-guerra.
L'aperta esaltazione delle droghe, i deliri di Erickson, infervorato da
sogni onirici, fantascienza e misteri dell'occulto ampliano il fascino
di una musica che nella sua essenza rimane un rock-blues esasperato. L'irruenza
dei Rolling Stones e degli Animals si ricopre di passaggi al limite del
paranoico: viene sancito un definitivo distacco dai modelli inglesi, in
un'elaborazione della matrice blues che sposta "oltre" tutto l'oggetto
della contesa. Tra i tanti meriti lasciati ai posteri, anche quello di
condividere con i newyorkesi Blues Magoos il primato di avere inserito
per la prima volta in un disco di rock'n'roll il termine psichedelico.
Il "lecca lecca psichedelico" (Psychedelic Lollipop) dei
Blues Magoos fu uno degli exploit più anomali del 1966, con il singolo
We Ain't Got Nothin' Yet direttamente nella top five americana.
Di acid-rock, misticismo e deliri a base di LSD non si riscontravano tracce
considerevoli, in un disco che restava essenzialmente un parto garage-rock,
dominato dall'organo Farfisa di Ralph Scala e dalle chitarre di
Emil Theilhem. L'efficacia della loro immagine, che generò una
autentica "magoosmania", contribuì però a creare più di un collegamento:
la band sfoggiava "un memorabile abbigliamento di scena fatto di stupefacenti
abiti "elettrici" che si illuminano sul palco, un taglio di capelli appositamente
creato da Vidal Sassoon e vari gadget di contorno, come la pshyche-de-lite,
prima lampada "allucinogena" per uso casalingo" (Cesare Rizzi). Trovate
pubblicitarie a parte, eravamo però ben lontani dal nascente stile californiano,
se non nella presenza di qualche eterea ballata, e più vicini forse ai
fragili fenomeni del pop.
All'opposto della West Coast montava invece un fenomeno che tra San Francisco
e Los Angeles schierava una vera e propria "avanguardia": la British Invasion,
il folk rock di Bob Dylan, le nuove frontiere dell'elettronica si stavano
sposando con il dogma dell'espansione della coscienza, e i trip psichdelici
dei Charlatans al Red Dog Saloon facevano da modello per un'intera comunità
(Fabio Cerbone ©2005)
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