Elvis
Presley Elvis
is Back! [Rca/Legacy/Sony
2011
2Cd]
Alcune parole, a forza di essere
utilizzate in modo improprio, hanno ormai perso di valore e significato. Tra queste,
tutti i superlativi cui si ricorre, accompagnandoli con immancabili squilli di
tromba, quando c'è di mezzo (in ambito discografico) una qualche ristampa. Sono
convinto anch'io che un pizzico di moderazione lessicale in più potrebbe aiutarci
a ritrovare un auspicabile senso delle proporzioni: in fondo, le riscoperte davvero
imprescindibili sono quattro o cinque ogni anno, mentre tutto il resto oscilla
tra la mera operazione di marketing, lo stratagemma per ingolosire il completista
e la pura e semplice raschiatura del fondo del barile. Eppure di fronte alla nuova
versione di Elvis Is Back!, il primo album pubblicato da Elvis Presley
dopo quel servizio di leva che secondo molti ne avrebbe addomesticato gli istinti
più selvatici, è difficile trattenere l'entusiasmo. Non solo per il diligente
lavoro di rimasterizzazione effettuato dall'esperto Vic Anesini presso i Battery
Studios di New York: la scelta di accoppiare il disco del 1960 a una dozzina di
singoli del periodo rimasti fuori dai coevi lp e al successivo Something
For Everybody ('61), molto simile per spirito e musicisti coinvolti, consente
infatti di tenere per le mani un gruppo di canzoni tra le migliori mai licenziate
da Elvis in vent'anni di attività, di un nonnulla inferiori all'inarrivabile,
scorticato rock'n'roll degli esordi e sullo stesso piano delle superbe registrazioni
gospel dell'ottobre '60 o delle spettacolari raccolte dal vivo della decade posteriore.
Sebbene molti autorevoli commentatori sostengano che l'unico Elvis che
vale la pena conoscere - il ragazzo bianco con la voce da nero capitato negli
studi di Sam Phillips, a Memphis, per incidere un acetato da regalare alla madre
- sia quello del 1956, chi vi scrive è invece convinto che materiale interessante,
nel percorso professionale di Elvis, si trovi un po' dovunque, anche nelle fasi
di carriera più sputtanate e superficiali. È vero: Elvis non è mai stato selvaggio,
innocente e trascinante come nei brani elaborati, tra il '53 e il '55, durante
il soggiorno in casa Sun Studio (obbligatorio, a tal proposito, consigliare ancora
una volta un ripasso del doppio Sunrise ['99]). Ma quello di Elvis Is Back! e
Something For Everybody è soltanto un altro musicista e, soprattutto, un altro
cantante. La famigerata chiamata alle armi non ha affatto rammollito il nostro,
ne ha semmai affinato le doti da crooner, da cantante confidenziale (peraltro
capace di recuperare in un lampo la verve del vecchio shouter innamorato del rockabilly).
Elvis approfitta della rinnovata sicurezza, contrattuale e artistica, per iniziare
quel cruciale processo di transizione che, dalle radici blues del nativo Mississippi
(era nato a Tupelo, nel 1935), lo porterà prima a definire meglio di chiunque
altro rhytm'n'blues di Memphis, poi a mettere in cantiere il crossover tra country
e ballate nostalgiche degli anni '70. Si può anzi dire, col senno di poi, che
il big bang rockinrollista del citato preambolo sotto l'egida di Phillips, ancorché
fondamentale nello sviluppo della musica popolare del '900, individui in realtà,
rispetto al complesso dell'opera, il segmento meno rappresentativo della carriera
di Presley.
Al contrario,
in Elvis Is Back! e Something For Everybody,
entrambi registrati a Nashville col preciso scopo (caso raro per
il Re) di confezionare due album fatti e finiti, c'è il prototipo
del Presley passato alla storia, quello delle canzoni d'amore
tra country e soul, il rocker ingentilito dalla ricercatezza di
un portamento rootsy mai più espresso con tanta eleganza, il bluesman
proletario che si infiamma, accarezza, scuote e sussurra. Elvis
Is Back!, in particolare, è un capolavoro di finezza. Attorniato
dai musicisti migliori con cui abbia mai lavorato, cioè Scotty
Moore (chitarra), DJ Fontana (batteria) e Floyd
Cramer (pianoforte), e doppiato alla voce dallo strepitoso
quartetto dei Jordanaires, Presley passa con disinvoltura
stupefacente dal blues al rock'n'roll, dal doo-wop allo swing,
dal rockabilly al rhytm'n'blues, sempre fornendo le versioni definitive
delle canzoni con le quali si cimenta. Il jazz ambiguo di Fever
(Little Willie John) segue con scrupolo l'arrangiamento (schiocchi
di dita e una linea di basso) conferito al pezzo, due anni prima,
da Peggy Lee, ed è altrettanto geniale;
Make Me Know It (Otis Blackwell) apre le danze con
una sarabanda doo-wop, dove i Jordanaires fanno faville, che deve
qualcosa ai Drifters e sta sullo stesso piano delle altre composizioni
dello stesso autore già interpretate da Elvis (Don't Be Cruel
e All Shook Up, e scusate se è poco). Il trittico successivo,
composto dal pop sentimentale di Girl
Of My Best Friend, dal country evocativo di
I Will Be Home Again e dal rock'n'pop travolgente di
Dirty, Dirty Feeling (solito
pezzo da novanta di Jerry Leiber e Mike Stoller, gli autori di
Hound Dog e Jailhouse Rock), attesta la spregiudicatezza e la
spontaneità di Elvis nel muoversi in una baraonda di generi differenti.
Tutti ricomposti, un attimo dopo, nella devastante frustata tra
rock e soul della movimentata Such A
Night, uno di quei brani che spiegano meglio di qualsiasi
descrizione perché Elvis abbia trasceso la dimensione di mera
icona musicale e sia finito a giocare tra i big-leaguers delle
leggende storiche (in ogni caso, l'ampiezza della scala di tonalità
vocali utilizzate nel corso della canzone lascia ancora a bocca
aperta). Se suonano ottimi il blues di It
Feels So Right e Like A Baby
(più pomposa l'una, più scarna l'altra), a dir poco incredibile
è la jam bluesata della conclusiva Reconsider
Baby, col pezzo di Lowell Fulson che si trasforma nella
colonna sonora di una serata da juke-joint dove Elvis singhiozza,
il gruppo naviga sicuro nel fango delle paludi e il sax fulminante
di Boots Randolph squarcia l'aria con i suoi fendenti.
Nelle
bonus-tracks ricavate dai singoli "extra-album" dell'epoca, poi, appare di tutto:
il tosto rock mid-tempo di Stuck On You e
la deliziosa ballata Fame And Fortune (una
strizzatina d'occhio a Frank Sinatra), l'etilico errebì di una Mess
Of Blues culminante in un falsetto da antologia e il pop all'acqua
di rose di I Gotta Know. Are
You Lonesome Tonight? è così nota da rischiare l'effetto saturazione,
ma questa prima versione, contrassegnata dall'ugola di Elvis che recita stentorea
sopra un tappeto di sussurri vocali e chitarre arpeggiate con estrema delicatezza,
rimane un piccolo gioiello. It's Now Or Never e
Surrender, invece, restano indigeribili oggi
come allora: traduzioni di due classici della canzone napoletana, le celeberrime
O Sole Mio e Torna A Surriento, rivisitati da Elvis per compiacere la moglie del
prussiano manager dell'artista (il "Colonnello" Tom Parker), i brani, pur cantati
benissimo, affogano in un pantano di grottesche citazioni operistiche e folklore
da cartolina che il tempo non ha certo migliorato, anzi. Piccolezze, comunque,
da prendere come parte del gioco teatrale di un artista troppo famoso per non
incorrere in qualche scivolone, e magari, se osservate con la giusta dose di ironia,
perfino divertenti.
E
ironico, divertente, sornione e irresistibile è l'intero Something For
Everybody, diviso in due facciate - "ballad" e "rhytm" - dalle caratteristiche
opposte pronte a regalare "qualcosa a chiunque". Nelle ballate Elvis è fenomenale:
There's Always Me, la bluesata Give
Me The Right (splendida l'intro vocale di Millie Kirkham), i fiati
di Sentimental Me, il pianoforte asciutto
di Starting Today e la folkeggiante Gently,
impreziosita dalla chitarra acustica del grande Hank Garland e attraversata da
Elvis col pensiero rivolto a Marty Robbins e al Kingston Trio, non sbagliano un
colpo neanche a farlo apposta. Ma anche la sfilata dei pezzi più pimpanti, inaugurata
dall'honky-tonk alla Jerry Lee Lewis di I'm Comin' Home
(Charlie Rich), conclusa dal rockabilly enfatico di I
Slipped, I Stumbled, I Fell e consegnata all'immortalità dal rock'n'roll
teppista di una I Want You With Me che catapulta
Ray Charles in una guerra tra bande giovanili, si difende con la grinta, l'energia,
il mordente e la determinazione di sempre. Completano il quadro della ristampa
il blues da manuale di I Feel So Bad, l'accoppiata
(Marie's The Name) His Latest Flame e Little
Sister (tutte e due scritte da Doc Pomus e Mort Shuman ispirandosi
agli scossoni ritmici di Bo Diddley), il doo-wop di Good
Luck Charm e l'incantevole sussulto gospel di una Anything
That's Part Of You che sembra Bridge Over Troubled Water dieci anni
prima.
Tutta questa eterogeneità stili, questa pluralità del linguaggio,
costituisce il peccato originale che in parecchi, al Sergente Presley rientrato
dall'arruolamento, non hanno mai perdonato. Elvis Is Back! e Something For Everybody,
di fatto, strappano il velo tra spettacolo e pubblico, aprendo la diga al fiume
di mestieranti decisi a monetizzare la scelta di compiacere gli indirizzi degli
ascoltatori anziché anticiparli o crearli (come Elvis e Sam Phillips avevano fatto
mescolando Hank Williams al rhytm'n'blues e, quindi, inventando e sdoganando il
rock'n'roll per i bianchi). Coltivare sogni infranti può essere una consolazione,
non si discute, ma nel caso di Elvis significherebbe sottovalutare il lavoro di
uno dei più grandi performer della storia del rock e una catena di album dove,
anche nei casi meno presentabili, c'è ogni volta un mondo da riscoprire, da attraversare,
da abitare. (Gianfranco Callieri)