Green on Red
"L'anima fuorilegge del roots rock"

Dal cosiddetto Paisley Underground alle cupe sonorità hard-boiled, fino al desert-rock di frontiera, i Green On Red ci hanno sempre messo la faccia, pagando spesso sulla loro pelle il conto di un'esistenza fuorilegge e sempre al limite del collasso psichico ed artistico. Sempre sopra le righe, il riottoso Dan "Big Daddy" Stuart, ha rappresentato al meglio quell'anima fuorilegge e crepuscolare tipica di una certa cultura del sud ovest americano, associando spesso le sue visioni musicali al cinema di Sam Peckinpah, ai western di serie B e alla letteratura nera degli anni '50. Allo scrittore Jim Thompson dedicherà addirittura un album. Sarà proprio questo brutto caratteraccio che lo associa a certi personaggi dei romanzi da lui tanto amati, a fargli perdere per strada più di un amico, ma forse è anche per questo che Dan Stuart ha rappresentato non certo l'anima più ripetitiva e conservatrice del roots rock, quanto piuttosto l'aspetto più sincero e onesto che quel movimento ha prodotto.

a cura di Gianluca Serra

 
:: Il ritratto
 

Il luogo di partenza è Tucson, Arizona 1979. Tre timidi ragazzi di provincia: Dan Stuart (chitarra), Jack Waterson (basso) e Buddy Van Christian (batteria) cui si unirà a breve Chris Cacavas (tastiere) passano il loro tempo sognando di diventare delle rock star. La loro band si chiamava "Serfers" e mossi dalla smania di farsi ascoltare decidono di uscire dalla ristretta scena di Tucson per dirigersi a Los Angeles. Neanche il tempo per rendersi conto dove sbattere il naso, che avviene il primo avvicendamento nella band. Via il batterista Buddy Van Christian, che se ne torna in Arizona (realizzerà in seguito un proprio un mini-ep distribuito dalla Down There con il nome Naked Pray) e dentro il nuovo Alex Mc Nicol (batterista con già qualche esperienza nei 13.13 di Lydia Lunch). Dopo il cambio di nome in Green on Red, nel gennaio dell' '81 i quattro si autoproducono 300 copie di un ep di cinque pezzi dal titolo Two Bibles. L'ep, seppur acerbo e poco curato, piace a Steve Wynn , leader degli emergenti Dream Syndicate che decide di produrre il successivo lavoro della band per conto della sua label personale, la Down There. Nel 1982 esce il disco Green on Red, altro ep costituito da 7 traccie meglio curate e arrangiate dell'esordio. Il lavoro, senza dubbio di buona fattura, rimanda direttamente alle sonorità sixties, ai Velvet Underground, alla psichedelia californiana ed ovviamente ai Doors, merito in particolare del ruolo predominante rivestito dalle tastiere di Cacavas. Entrati a pieno diritto nel nascente movimento Paisley Underground, i Green on Red, grazie a Steve Wynn entrano in contatto con il produttore e musicista nonché tuttofare della scena hard core californiana Chris Desjardins, che li assume alla Slash pubblicando il loro primo lp Gravity Talks nel 1983. L'album oltre ad essere un autentico capolavoro rappresenta anche uno dei dischi più rappresentativi della scena californiana indipendente dei primi anni '80.

A segnare le sorti dei Green on Red sarà però l'ingresso del giovane chitarrista Chuck Prophet IV. Dotato di una raffinata tecnica e con uno stile simile ai guitar-border quali J.J.Cale e Ry Cooder, Prophet contribuirà in maniera decisiva ad indirizzare i suoni della band verso sonorità più mature e "roots". Il primo disco realizzato dalla nuova formazione allargata sarà Gas, Food and Lodging del 1985, uno degli album più belli di rock americano del decennio. Alla psichedelia e ai suoni sixties di Gravity Talks si aggiunge ora quello spirito da fuorilegge, quel mito della fuga, del viaggio che risulterà in seguito il copione predominante nella carriera dei Green on red. La chitarra desertica di Prophet riempe i suoni combinandosi alla perfezione con le tastiere di Cacavas e dando un svolta rock al sound del gruppo. I Green on Red hanno raggiunto il giusto equilibrio tra le varie anime della band, ma i dissidi interni iniziano a farsi sentire. L'ep successivo No free Lunch del 1986 è in realtà un esperimento, tra l'altro ben riuscito, di country music, voluto e diretto dal riottoso Dan Stuart che cova in animo suo il cambio di sceneggiatura, ma la formazione è ai ferri corti. Il primo ad andarsene è Alex Mc Nicol e a breve lo seguiranno anche gli altri. "Il colpo di stato" vero e proprio si manifesta con l'album The Killer Inside Me, in cui Stuart traghetta la band verso orizzonti carichi di storie amare e maledette e dove la psichedelica e i suoni adolescenziali sono completamente dimenticati. Questo è troppo anche per Cacavas e Waterson, che incapaci di convivere con una personalità tanto complessa, lasciano il gruppo.

Quello che sarà dei nuovi Green on Red ridotti ormai ad un duo di fuorilegge non potrà che essere un pugno di stupendi album (Here comes the snakes, This Time Around, Scapegoats) e qualche ballata struggente, dove il vero protagonista sarà il deserto e tutte quelle storie ai margini che ci raccontano di un' America minore fatta di diavoli e polvere. Poco innovativi, senza peli sulla lingua ed a giudizio di alcuni anche poco essenziali, ma probabilmente è anche per questo che ci sono piaciuti tanto: sempre sinceri ed onesti fino alla fine.

 
:: Il capolavoro
 

Gas Food Lodging
[Enigma 1985]

1 That's What Dreams Are For // 2 Black River // 3 Hair Of The Dog // 4 This I Know // 5 Fadin' Away // 6 Easy Way Out // 7 Sixteen Ways // 8 The Drifters // 9 Sea Of Cortez // 10 We Shall Overcome

 

Registrato all' Eldorado Studio di Hollywood, sotto la regia di Paul B. Cutler, uno dei veri eroi sotterranei di molti dischi della scena di LA dell'epoca, Gas Food Lodging è il capolavoro di una carriera intera. Il disco non disperde affatto le energie giovanili e le atmosfere garage che avevano reso perfetto il debutto Gravity Talks, ma le fonde con un suono grezzo, da strada e profondamente rock nella sua più semplice accezione del termine. D'altronde già il titolo è una chiara e diretta dichiarazione d'amore verso un rock marginale, che trova nella polvere della strada e nella vita on the road la sua stessa ragione d'essere. Con Gas, Food Lodging i Green On Red uniscono l'irriverenza giovanile e la voglia di osare del movimento Paisley alle radici della musica americana e il risultato che ne esce è un lavoro che, seppur contestualizzato nel suono e nelle atmosfere californiane di quegli anni, assume a tratti quegli elementi di epicità che lo rendono uno dei dischi di rock americano più interessanti degli ultimi 30 anni.

Merito della svolta è ovviamente l'ingresso del giovane chitarrista Chuck Prophet IV detto "il Kid", il quale oltre a riempire il suono della band con una chitarra precisa e diretta, si pone come nuovo alter ego alla figura musicalmente più dotata di tutto il gruppo, ovvero il tastierista Chris Cacavas, che fino all'ingresso del Kid aveva il controllo assoluto della scena. L'articolato mix di tastiere sixties e chitarre rollingstoniane, se unite poi alla voce disperata e nevrotica del nostro Big Daddy Stuart, ci danno una giusta idea del fantastico suono di Gas Food Lodging. Ai riferimenti musicali già citati nei dischi precedenti (Doors, Dylan, Quicksilver, Byrds), si aggiunge con forza l'anima inquieta ed elettrica del Neil Young di Zuma, vero padre putativo di questa nuova combriccola di fuorilegge.

Dopo una iniziale That's what dreams are for dal tocco lisergico e psichedelico, si parte subito per la strada, direzione south, con una Black River che puzza di whiskey, di sudore e polvere. Hair of dog è uno dei pezzi più duri mai scritti dai Green on Red, con le chitarre elettriche ed una voce che urla in primo piano; This I Known e Fadin' away mescolano il loro passato garage con la dura vita on the road, mentre in Sixteen Ways, The Drifter e Sea of Cortez l'ombra ingombrante del citato Young di Zuma si sposa con le sonorità acide e lisergiche della psichedelia. Giusto il tempo per una bellissima rilettura della classica We shall overcome per concludere un disco che rimarrà negli anni come una pietra miliare di un decennio musicalmente fertile, in quanto fatto non solo di una passiva riproduzione di schemi e suoni del passato, ma viceversa della mai troppo lodata capacità di questa nuova generazione di rinnovare e traghettare le radici della musica all'interno di un percorso nuovo e moderno.
Keep on Rockin'

:: Dischi essenziali
 

Gravity Talks
[Slash 1983]

Dopo qualche anno di gavetta a LA, la città all'epoca più esplosiva d'America, tra violenti punkers e nascenti promesse della scena roots, ed un paio di buoni ep seppur ancora acerbi, esce nel 1983 Gravity Talks. L'album, oltre ad essere il primo vero disco compiuto della band, verrà ricordato nei manuali di storia del rock come uno dei tre dischi più rappresentativi del giovane movimento Paisley della California dei primi anni '80, assieme a "The Days of wine and roses" dei Dream Syndicate e "Emergency third rail power trip" dei Rain Parade. Pubblicato dalla Slash di Chris Desjardins, che dopo aver conosciuto la band grazie a Steve Wynn non ha perso un attimo a metterli sotto contratto, il disco è senza dubbio un piccolo capolavoro di rock acido e psichedelico che suona con un'immediatezza ed un urgenza che solo una band di Los Angeles di quegli anni avrebbe potuto rendere.

Il rimando al passato si spreca: dal folk elettrico, al rock urbano dei Velvet, dalle tastiere lisergiche di Ray Manzarek, fino al Dylan anfetaminico a cui la voce nervosa di Danny Stuart a tratti rimanda, ma tutto il disco vive di un proprio suono e di una propria identità che lo rende attuale e diverso da qualsiasi altra cosa già sentita. A far da padrone nell'economia sonora del gruppo poi non è la classica chitarra, ma bensì la tastiera doorsiana di Cris Cacavas che ricopre le malinconiche e struggenti ballate di Stuart, che puzzano di border e di sangue, di un suono lisergico ed acido, assolutamente distintivo. Memorabili sono poi tutti i pezzi del disco, che si alternano tra struggenti ballate malinconiche (Deliverance, Over My Head, Cheap Wine) acidi pezzi che sanno di psichedelia (Snake Bit, Blue Parade, Narcolepsy) e decadenti ballate noir (Five easy-pieces) tutte perfette nel contribuire a fare di Gravity Talks un piccolo capolavoro di rock garage. Animato da una vena malinconica e crepuscolare e da una perfetta alchimia tra sonorità sixties e le nuove tendenze garage e new-wave che infuriavano in quegli anni proprio a Los Angeles, il disco anche a distanza di anni rimane infatti un piccola gemma di rock minore, di quei capolavori che nascono solo una volta proprio perché profondamente legati alla gioventù e all'imprudenza di non porsi mai dei limiti.

I Green on Red di Gravity Talks infatti non esisteranno più. Già l'ingresso del fuorilegge Prophet, che si unirà a breve alla comitiva, contribuirà alla maturità artistica del gruppo creando le premesse per quella svolta desertica che avrebbe perso gran parte della carica Paisley. Ma è inutile rimpiangere il passato: d'altronde anche i Dream Syndicate non furono più quelli del "giorno del vino e delle rose". Ciò che è più rilevante parlando dei Green on Red è che i capitoli a venire siano ancora più memorabili e non lesineranno di certo un buon condensato di rock e sudore.

 

No Free Lunch
[Mercury, 1985]

L'amore per le tradizioni e per la roots music americana, in parte già emerso nel capolavoro Gas Food and Lodging, evidentemente era molto più forte e profondo di quanto ci si potesse attendere, tant'è che tra lo stupore generale di critica e fans, la band sforna nello stesso anno un ep di 7 tracce dalla fortissima influenza country. Dopo la riscoperta del rock'n roll (è dello stesso anno "Hard Line" dei Blasters), anche la country music, fino ad allora considerata musica del passato, recupera una sua nuova identità grazie ad una serie di nuove giovani menti musicali (Jason & The Scorches, The Long Ryders...) appassionate della genuinità e della capacità di questa musica di cogliere quelle semplici cose della vita, completamente dimenticate in un'epoca fatta di spot televisivi e finti eroi impomatati.

Dire che No Free Lunch abbia influenzato tutta la futura generazione no-depression è come scoprire l'acqua calda, più interessante semmai è rilevare il profondo stupore per un cambio di indirizzo tanto inatteso quanto azzardato. Le 7 traccie dell'Ep ci consegnano una band che non conosciamo, che nulla ha a che spartire con la rivoluzione Paisley, con le sonorità garage e con la psichedelia in generale. No Free Lunch è un tuffo nello sconfinato paesaggio western e nella polvere del deserto. E' un infinito viaggio tra stazioni di benzina, paesi di provincia, motel da pochi dollari e poche notti, whiskey di seconda mano e birra calda tutto incasellato in una meravigliosa cornice rosso fuoco come un orizzonte western che non tramonta mai.

Dan Stuart ci racconterà che era solo un esperimento, ma canzoni come Time is nothing, Jimmy Boy o Honest Man non verranno certo dimenticate da nessuno, come un autentico capolavoro appare anche la rilettura di uno standard country come Time Slips Away di Willy Nelson. Se i nuovi Green On Red sono questi, è fin troppo evidente che non c'è più spazio per tutti. Il primo ad andarsene sarà il batterista Alex "Big Dog" MacNicol, ma presto il giorno delle grandi purghe arriverà ed in particolare per Chris Cacavas, un tempo vera anima sonora del gruppo ed ora rilegato ad un ruolo di semplice comprimario, i giorni appaiono sempre più contati.

 

The Killer Inside Me
[Mercury, 1987]

Per molti considerato come un disco minore o addirittura trascurabile, in realtà The Killer Inside me riascoltato a distanza di più di 20 anni dalla sua realizzazione emana un fascino incredibile. Realizzato lungo l'asse Los Angeles - Memphis sotto la regia del grande produttore sudista Jim Dickinson, "The Killer" è un tuffo nell'America più sinistra e marginale, nel lato selvaggio della frontiera, tra le visioni crepuscolari dei film di Sam Peckinpah e il sangue nero pece dei romanzi hard-boiled di Jim Thompson. Ciò che rende meraviglioso "The Killer" è in realtà il fatto che sia il disco più sincero e nudo della band. E' lo specchio dell'anima, la fotografia sincera di un momento di passaggio tra il passato e il futuro, tra la gioventù e la maturità. E come in ogni fase di cambiamento qualcosa viene abbandonato e nulla è più come prima. Ad imporre la svolta è ovviamente il riottoso Dan Stuart che con i soliti modi rozzi e poco consoni presenta ai suoi compagni un cambio di registro essenziale. Il nuovo copione prevede un rock potente e urbano ambientato sotto il grande sole nero della Città degli Angeli. Per non appassire o fare la ruggine ci racconterà in seguito, o forse solo perché Danny è davvero un gran vero figlio di puttana.

Sempre al limite del collasso psichico ed artistico, tra risse e sbronze colossali, Danny si imbatte nel romanzi noir di Jim Thompson e se ne ossessiona al punto di identificarsi spiritualmente con i protagonisti. Sono novelle maledette di una provincia sporca e minacciosa, dove i personaggi, apparentemente innocui, si distinguono tra i cattivi e i molto cattivi e dove il Killer è in realtà nell'animo di tutti. Immortalato dalla meravigliosa fotografia di Ian Dawson l'album prende il nome proprio dal romanzo "The Killer inside me" del 1952, una tra le novelle più note dello scrittore americano. Se il mini ep No Free Lunch sanciva l'amore della band verso i grandi spazi e i cieli rosso fuoco del sud ovest, con The Killer l'orizzonte diventa nero come la pece e le storie amare e cariche di rabbia sono lo specchio dell'anima irrequieta di Danny. Il sound è cinico, carico di un nervosismo dilagante, con una voce che urla disperata come in preda ad un esorcismo.

A sancire il sound sudista, marchio di Dickinson, è la presenza di una forte venatura gospel che rende spesso ancora più sinistri pezzi di una bellezza incredibile come No Man's Land e Clarksville, dove sembra non esserci via di fuga ad una minaccia incombente. Non manca certo un pezzo come Born to fight, manifesto di tutti i loser alla deriva in qualche bettola di periferia o qualche ballatona dal cuore d'oro come Jamie. C'è ancora tempo per una fuga oltre il confine messicano (Sorry Naomi), o per qualche altra ballata amara come Mighty gun e We ain't free. Quando il disco uscì all'epoca, quasi tutti lo battezzarono come un clamoroso passo falso, pretenzioso e mal arrangiato, ma d'altronde conoscendo la strafottenza di Danny "Big Daddy" Stuart è probabile che la cosa non gli abbia certo disturbato il sonno, anzi magari è stato l'ennesimo buon pretesto per mandare a farsi fottere tutti quanti.

 

Here Come The Snakes
[China, 1988]

Rappresentato da un'ascia insanguinata immortalata nella cover del vinile, Here comes the snake appare subito come una logica prosecuzione della sceneggiatura noir di The Killer inside me. Ma l'apparenza inganna. Anticipato infatti dall'uscita inevitabile dalla band sia di Cris Cacavas, sia di Jack Waterson, non più disposti a subire l'arroganza e il despotismo di Dan Stuart, "Here comes the snake" suona molto più sereno e rilassato del disco precedente. Sistemati gli attriti e i conflitti con i vecchi fratelli, per Danny ormai rinfrancato dal controllo assoluto della band, si apre una fase di maggiore tranquillità sia musicale che esistenziale. Ridotti ormai ad un duo, i Green on Red proseguono la collaborazione con Jim Dickinson realizzando un lavoro dai forti connotati sudisti e fuorilegge, in cui le storie nere di criminalità urbana lasciano il posto ad un nuovo protagonista: il deserto. I suoni sono minimali ed asciutti, poco presenti sono le tastiere ed il pianoforte (che avevano ricoperto un ruolo essenziale nel precedente) e completamente assenti i cori gospel. A far da padrone è la voce malinconica da border di Stuart e la chitarra desertica e ad alta precisione del fido Prophet.

Registrato sempre a Mehmpis negli storici studi di Sam Phillips il cuore di Here comes the snakes è costituito da un pugno di meravigliose ballate crepuscolari cariche di polvere del deserto e di malinconia. Morning Blue, Broken Radio, Way Back Home, We Had It All (una rilettura del classico soul di Donnie Fritts) sono alcune tra le canzoni più belle mai scritte dai Green on Red e rimangono a tutt'oggi un perfetto esempio di come questa generazione di musicisti in un epoca di tastiere e sintetizzatori, sia riuscita con onestà e talento a traghettare il passato nel presente. Il rock di strada è ben rappresentato dall'iniziale rollingstoniana Keith Can't Read e da una meravigliosa Zombie For Love dove sembra di essere immersi in un alcolico sabato sera in qualche localaccio fumoso del sud. C'è spazio per un sinistro talking blues che puzza di sporco come Tenderloin, dove la voce infernale di Stuart è accompagnata da un armonica sanguinante e per una clamorosa traccia desertica quale D.T. Blues dove la chitarra di Prophet, lenta e anfetaminica rimanda al Neil Young di On The Beach.

I nuovi Green on Red piacciono e si ergono portabandiera di un rock "dirty" e fuorilegge che unisce gli Stones di Beggars Banquet con il Neil Young depresso dei '70, le visioni western di Sam Peckinpah al cinismo di Jim Thompson. Diranno che non hanno inventato nulla ma poi è davvero una colpa? In un epoca dominata da Spandau Ballet e Duran Duran, i Green on Red sono stati essenziali in quanto hanno tenuto accesa la speranza a tutti coloro che credevano ancora nel mito della strada e all'immagine del rock come espressione di libertà.

 

Scapegoats
[China, 1991]

Poco soddisfatti del suono "troppo pulito" di This Time Around, i Green on Red decidono di cambiare per l'ennesima volta la sceneggiatura del loro film e, salutato senza troppe lacrime Glyn Johns, si recano da Al Kooper, a Nashville, per sottoporgli il loro nuovo copione western-oriented. L'alchimia che si crea fra i tre è immediata ed il lavoro che ne esce è un autentico capolavoro di american music che emana un fascino ed una bellezza ad oggi inalterata. Circondati da un gruppo di amici e collaboratori di grande qualità (Dan Penn, Spooner Oldham, Tony Joe White ), sotto la regia impeccabile del veterano Al Kooper i Green on Red recuperano il senso ed il fascino della loro anima crepuscolare realizzando un lavoro pieno di riferimenti al deserto, alle storie di confine e ad una certa letteratura noir che ne ha sempre segnato il percorso artistico. Scapegoats è forse il loro lavoro più epico e cinematografico in assoluto, a tratti sembra davvero di essere catapultati in qualche pellicola western di serie B o in qualche scena carica di violenza e vietata ai minori di Sam Pechinpah.

Il suono, a tratti intimista e country-oriented che predomina l'intero lavoro, da libero sfogo all'animo fuorilegge e crepuscolare della band, riuscendo a recuperare quelle atmosfere epiche e quelle sonorità border che proprio This Time Around con il suo rock "senza sbavature" aveva tralasciato. Ci sarà spazio ancora per un ultimo saluto (Too Much Fun) ma con Scapegoats i Green on red si congedano con un disco out of time, fuori da ogni moda e da ogni corrente paradossalmente proprio in un periodo (inizi anni '90) dove il recupero delle tradizioni e delle radici sarebbe diventata la nuova tendenza del giovane rock provinciale d'America. Il disco si apre con la meravigliosa ballata A Guy like Me dove l'organo di Al Kooper ci rimanda al Dylan dei tempi migliori. L'atmosfera è country-oriented, con la voce di Stuart finalmente serena e rilassata, segno forse di una ritrovata pace interiore. Little things in life è uno dei capolavori dell'album, una dolce ballata acustica, dai forti sapori roots, suonata con un approccio intimo quasi domestico. Segue Two lovers (waitin' to die) e qui sembra davvero di essere immersi in una pellicola western. Sole, vento e polvere, l'armonica sanguinante di Tony Joe White per una delle tracce più crepuscolari mai ascoltate.

Gold in the graveyard
è il primo pezzo elettrico dell'album. Chitarre elettriche rollingstoniane ma sempre ben definite in una cornice di frontiera. Segue Hector's out, ballata lisergica un po' atipica guidata dai sintetizzatori e dagli arrangiamenti di Al Kooper. C'è poi spazio per una ballata country quale Shed a tear (for lonsome) che riporta l'album all'interno dei confini della musica roots. Dopo Blowfly, una ballata elettrica di buona fattura, è il momento per un altro capolavoro ovvero Sun goes down. Il pezzo, lento e carico di tensione, rimanda alle classiche sonorità desertiche e crepuscolari della band e sembra di riascoltare alcune delle cose più pregiate di The Killer inside me o Here Comes the snakes. C'è infine spazio per un'altra traccia country quale Where the rooster crows con Spooner Oldham al piano e Dan Penn alla chitarra acustica, prima che a concludere l'album sia una toccante e meravigliosa Baby loves her gun che rimane ad oggi come una delle ballate più belle che i Green on Red abbiano mai scritto.

 
:: Il resto
 

This Time Around
[China, 1989]

"Why do we play music ? ……we're too lazy to work and too nervous to steal". Troppo pigri per lavorare e troppo nevrotici per rubare. A mettere subito le cose in chiaro (se ce ne fosse ancora bisogno) sono proprio le note interne di questo This Time Around. L'immagine di copertina, un braccio con tatuata la frase "Born to lose" ritratta in una zona poco raccomandabile della città, è d'altronde già sufficiente a rappresentarci uno stile di vita ai margini, vissuto sempre nella parte sbagliata della strada e dove il rock è l'unico mezzo di espressione per dare senso e dignità alle storie dei perdenti e dei fuorilegge. Nonostante si dichiarino pigri, This Time Around è in realtà il terzo lavoro sfornato in solo tre anni, a dimostrazione di come i due stiano passando una fase di grande creatività. Il nuovo lavoro segna il cambio di regia nella produzione. Chiusa la collaborazione con Jim Dickinson, i Green on Red si rivolgono ora al grande Glyn Johns (Rolling Stones, The Who) con il fine di realizzare un album con maggiori connotati rock. Il lavoro che ne esce, infatti, abbandona la polvere del deserto e le ballate di confine, per indirizzarsi verso un rock stradaiolo e rollingstoniano fatto di riff secchi e chitarre elettriche. Il risultato complessivo è però spiazzante per tutti coloro che dei Green on Red hanno apprezzato il lato crepuscolare della loro musica.

I pezzi del nuovo album, s'intende di ottima fattura, non presentano sbavature e il suono è talmente pulito e curato da non fare emergere quelle "imperfezioni", e quello "sporco" che aveva reso i dischi precedenti dei capolavori. A distanza di qualche anno anche Dan Stuart considererà addirittura "merda" This Time Around, reo di apparire un disco fatto al computer, che "non suda". Che per Danny le cose siano sempre state solo bianche o nere, già lo sappiamo, e nella realtà, per gli amanti del vero rock oggi sempre più in crisi di astinenza, This Time Around, seppur con i difetti sopra citati, è comunque un disco tutt'altro da buttare. A partire proprio dalla title track che anticipa nei suoi 3 minuti il suono dell'intero lavoro: riff stradaiolo ed una voce secca, sempre pronta ad offendere. Sulla falsa riga dalla prima traccia seguono pezzi elettrici secchi, diretti nel vero stile rock quali Cool million, Rev. Luther, The Quarter e Foot dove a far da padrone è l'mpeccabile solista di Prophet.

Belle le ballate quali Good patient women, You couldn't get arrested e Hold the line che rimandano al lato selvaggio della strada. C'è infine spazio per un country-boogie (forse un po fuori contesto) come Pills and booze. Disco di buona levatura ma inferiore ai suoi precedenti, This Time Around rimanda ai dischi dei Rolling Stones ed in particolare a Tattoo You del 1981, forse l'ultimo grande capolavoro delle pietre rotolanti. Ascoltate quanto assomigli la title track This Time Around che apre il disco a Start me up.

 

Too Much Fun
[China, 1992]

Il compito ingrato di concludere la storia dei Green on Red spetta a questo trascurabile Too Much Fun che esce a distanza di un anno dal capolavoro Scapegoats. Il disco appare subito scarico di mordente e grinta, con tonalità eccessivamente dimesse che sembrano indicare una vera e propria resa più che una scelta musicale. Certo la classe non è acqua e l'esecuzione dei brani è impeccabile, ma il senso di stanchezza e di sufficienza che si respira rendono Too Much Fun un disco che cade in breve tempo nel dimenticatoio. Registrato in poche sedute a Tucson, il disco è un concentrato di dimesse ballate dall'impronta country (Too much Fun, Sweetest thing, Wait and see e Rainy days and Mondays) di blues da strada senza mordente (She's all mine, Frozen in my headlights, Love is insane) e di qualche rockaccio di rollingstoniana memoria (Thing or two, Love is insane). A ricordarci i vecchi fasti hard-boiled c'è una bella The Getaway, riff secco, ritmo medio, autostrade e polvere, forse il pezzo più convincente dell'intero disco, ma è l'assenza di grinta e di partecipazione che fa puzzare tutto il disco di vecchio e di già sentito.

E' la prima volta in cui sembra che i Green on Red si limitino ad eseguire passivamente un compito come fossero degli impiegati postali, il Killer ha fatto le valige ed anche quella sensazione di essere perennemente fuorilegge che rendeva unici i vecchi dischi, sembra completamente svanita. Too Much Fun ricorda più un disco di Robert Cray che di Robert Johnson. Forse qualcosa si è rotto o forse semplicemente dopo dieci anni di fughe e di corse oltre il confine anche per i nostri fuorilegge è giunto il momento di appendere gli stivali al chiodo. D'altronde anche Pat Garrett dopo una vitaccia passata a fare il bandito, decide ad una certa età di fare lo sceriffo con uno stipendio fisso: "….è un lavoro…arriva un'età nella vita di un uomo in cui non si vuole troppo perdere tempo per pensare di cui vivere".

Prophet proseguirà un onesta carriera fatta di una decina di album di buona fattura, mentre Stuart dopo un paio di dischi solisti poco riusciti svanisce nel nulla emigrando in Europa. Con la fine dei Green on Red cala definitivamente il sipario sul roots rock degli anni '80, uno dei movimenti più fruttuosi e allo stesso tempo sottovalutati dell'intera storia del rock americano. Solo i Giant Sand grazie all'ingresso nella band di nuovi musicisti (Convertino e Burns) riusciranno a trovare nuovi stimoli e nuovi percorsi mantenendo sempre alta la bandiera del desert-rock.

:: Riepilogo (discografia)


Two Bibles (autop. 1981)
Green On Red (Down There, 1982 mini lp)   6
Gravity Talks (Slash 1983) 8.5
Gas Food and Lodging (Enigma, 1985)   9
No Free Lunch (Mercury, 1985)   7.5
The Killer Inside Me (Mercury, 1986)  8.5
Here Comes The Snakes (China, 1988)   7.5
Live At The T & C Club (China, 1988)
This Time Around (China, 1989)  6.5
Scapegoats (China, 1991)   7.5
The Best Of Green On Red (China, 1991)  6
Too Much Fun (China, 1992)   6

Appendice alla Discografia:
Gas Food Lodging ristampato Restless/ Ryko (2003) in coppia con l'ep Green on Red
No Free Lunch ristampato Acadia/ Evangeline (2003)
Gravity Talks ristampato Wounded Bird (2006)
Here Come the Snakes ristampato Abraxas (2007) doppio cd expanded version

Altre raccolte di inediti, live, outtakes:
What We Were Thinking? Archives Vol.1 (Normal, 1997)
BBC Session (Maida Vale, 2007)

 

 


<Credits>