[Home]
|
||
inserito
17/11/2008
|
Apriamo questa nuova panoramica sugli indipendenti
italiani con l'interessante progetto di John Strada, intitolato
Dalla periferia dell'anima, opera complessa che cerca con
coraggio di interagire su diversi livelli artistici: non solo un disco
infatti, semmai un progetto ambizioso che coinvolge fra gli altri i racconti
di Gianluca Morozzi, ciascuno affiancato alla singola canzone di
riferimento (li trovate tutti nel curatissimo libretto interno), il lavoro
fotografico e pittorico di Andrea Samaritani che arrichisce anch'esso
il booklet, infine il video del brano Crevalcore
07.01.05 realizzato da Federico Regoli (sempre disponibile
all'interno del cd, in lettura sul vostro Pc). Al centro restano evidentemente
le composizioni di John Strada, autore solitamente legato a sonorità più
elettriche e di ispirazione blue-collar (tre lavori di studio a partire
da Senza tregua del 1991, cui vanno aggiunti un ep e un live acustico,
questo sino ad oggi il suo bottino discografico), che coraggiosamente
tenta "una fuga" verso le radici folk italiane e la canzone d'autore,
forse spinto anche dal peso specifico delle tematiche, ispirate da un
impegno sociale e da un generale sguardo verso le periferie del mondo,
fra tragiche storie di immigrazione ed esclusione nell'Italia dei nostri
giorni. Musicalmente cristallino (fra i tanti di distinguono le fisarmonica
e il piano di Gianmarco Banzi e la chitarra classica di Nelson Machado),
guidato da un timbro acustico semplice e al tempo stesso arricchito di
molte sfumature pop (Dimmi tu come si fa,
Zaira) e persino tentazioni world
(Scheletri), Dalla periferia dell'anima
convince per la sua immediatezza e per l'onestà nell'affrontare temi scomodi
con un sguardo appassionato. Manca probabilmente un peso specifico maggiore
nelle liriche, le quali appaiono a tratti un po' troppo naif (Oro
Rosso, Mohamed) o semplicemente
troppo scontate (la più debole senz'altro Occhi
Spagnoli) per riuscire a reggere gran parte degli argomenti
affrontati. Peccato veniale che speriamo possa trovare qualche accorgimento
in futuro. Il percorso è quello giusto. E
sulla buona strada sembrano indirizzarsi anche Le Trois Tetons,
bizzarro nome di un quintetto che si cela dietro misteriosi nickname (la
voce e le chitarre di Zac, la solista di Barbon, il basso di Icarus, la
batteria di Guido e il sax aggiunto di Gian), i quali, grazie all'uscita
del secondo episodio A Pack of Lies, sterzano decisamente
rispetto alle indecisioni del loro esordio, già commentato su queste
pagine. Se la preparazione strumentale non era in discussione fin dall'inizio,
ciò che colpisce questa volta favorevolmente è l'ottimo
gioco di incastri fra ritmi e parole, testi in inglese semplici ma a loro
modo suggestivi e dritti al cuore del loro rock'nroll. Quest'ultimo si
mostra in tutte le sue sfumature "settatesche", con un suono
per la maggior parte scarno, chitarristico mai sopra le righe o eccessivamente
sbilanciato verso un'epopea hard rock: anche le trame più scure
della rocciosa Disappear riescono
infatti a vivere di contrasti fra accelerazioni, slide guitar e buona
cura delle parti vocali. Il loro è un guitar rock che odora piuttosto
di Stones "maledetti", un punto di riferimento inequivocabile
nella torbida Useful Sevants e fra
le ombre sudiste di Thirteen Feet under The Ground,
bilanciato a dovere fra acustico ed elettrico. I miglioramenti risiedono
tutti nella capacità di essersi distaccati da un semplice clichè,
mettendo in mostra soluzioni e arrangiamenti più fantasiosi e personali,
che con una direzione produttiva accurata e qualche aggiustamento di rotta
potrebbero dare ulteriori soddisfazioni. La scaletta non è necessariamente
tutta riuscita, resta comunque generosa e in grado di imprimere un interessante
cambio di marcia nella seconda parte di A Pack of Lies, cominciando dalla
sinuosa Runaway, passando per il sax
di una Cherry Red che ha il passo
sexy di alcune rock'n'roll band di New Orleans (Subdudes e Iguanas ad
esempio) e arrivando alla inusuale carezza jazzy della conclusiva Can't
Be Trusted Torna
la brigata milanese dei Teka P, di cui mi ero personalmente invaghito
in occasione del loro frizzante esordio, Caragna
No, due stagioni fa. Non è il caso di rimagiarsi la parola,
anche perché l'intelligenza di quel disco nel rivitalizzare la tradizione
del canzoniere-cabaret lombardo alla luce di sonorità rock & soul resta
ancora oggi un interessante proposta. Purtroppo il qui presente Pan
e Larsen sembra eccedere troppo nel multiforme linguaggio musicale
del gruppo, portando parecchia confusione sulla tavolozza dei colori musicali.
Pop, rock, reggea, black music si infiltrano nella scrittura di Ivo Magnini
e Andrea Rodini come un tempo, perdendo però la bussola con collaborazioni
estemporanee, provocazioni ridanciane che francamente lasciano il tempo
che trovano (le voci di Bruno Pizzul ed Evaristo Beccalossi nella parodia
calcistica di Tira; Claudio Bisio
in Taka a Sonà e Tri
Pess), a meno di non considerare più importante l'aspetto colorito
dei Teka P rispetto ad un impegno musicale che in passato sembrava prevalere.
In Pan e Larsen (infelice anche la copertina) lo si ritrova a fatica:
nello scioglilingua coinvolgente di Tiketetaketitak,
nei personaggi strampalati che popolavano così fervidamente il lavoro
precedente (qui soltanto in Susy Boots).
Per il resto si apprezzano evidentemente le doti tecniche dei musicisti
(Giamò Primavera), un po' meno la
sostanza delle canzoni. Chiudiamo
infine tornando in ambiti più sensibili alle fonti di ispirazione di questo
sito per segnalare l'uscita di Last Rust…The Best & the Rest
dei Rusties, storica formazione tributo alla musica del loner canadese
Neil Young, che in questi anni ha saputo ritagliarsi un suo specifico
spazio nelle riproposizione del songbook younghiano, con una buona dose
di personalità. Restiamo sempre dell'idea che la migliore condizione per
apprezzarli sia assistere ad una loro serata, mentre la pubblicazione
di una raccolta come questa potrà forse lasciare perplessi: si tratta
infatti di una curiosa antologia che riunisce estratti non solo dai loro
precedenti lavori di studio - Rusties Never Sleep e Younger Than Neil
- ma anche diverse tracce dal vivo, tra cui quattro brani da una esibizioe
a Radio Popolare del 2007, una versione acustica di Southern
Man in teatro, una Mansion on the
Hill dalla fotunata apparizione dall'Orange Blossom, festival
organizzato dall'etichetta Glitterhouse in Germania, e persino un paio
di bonus track (Fukin' Up e Powderfinger)
definibili come "audience recordings", in puro spirito da "bootlegari".
In attesa di un debutto imminente con materiale originale (come anticpato
dallo stesso vocalist Marco Grompi), la storia dei Rusties è ben celebrata.
a cura di Fabio Cerbone |