Joseph Parsons
Empire Bridges

[Blue Rose/ IRD 2014]

www.josephparsons.com

File Under: folk rock, pop rock

di Davide Albini (04/04/2014)

A Joseph Parsons non manca certamente lo spirito di iniziativa: dovessimo soltanto limitarci ai suoi dischi solisti il conto salirebbe già a dieci, a partire dall'esordio del 1995, compresi due live che sono apparsi regolarmente nelle cronache del nostro sito. In realtà la produzione di questo autore di Philadelphia, ma da diversi anni stabilitosi in Germania, va ben oltre la sfera personale: di lui infatti si ricordano soprattutto le collaborazioni avviate con Todd Thibaud (il più recente album in coppia è del 2011, Transcontinental Voices), con gli Hardpan (al citato Thibaud si aggiungeva in questo caso anche il talento di Terry Lee Hale) e soprattutto con gli US Rails, forse il connubio artistico di maggiore successo in Europa, con un paio di lavori che hanno venduto bene per le casse della Blue Rose, convincendo il gruppo a tornare più volte in tour (imminente qualche data italiana a maggio).

L'etichetta tedesca è effettivamente la seconda casa di Parsons, da sempre sostenitrice della sua musica, motivo per cui da tempo l'artista ha definitivamente fatto i bagagli dagli States, collaborando con una band per due quarti autoctona (Freddi Lubitz al basso e Svan Hansen alla batteria) ai quali si aggiunge il fido chitarrista Ross Bellenoit. Empire Bridges, registrato in gran parte in Germania, segna dunque il ritorno di Parsons alle sue canzoni, tre anni dopo un disco, Hope For Centuries, passato inosservato proprio perché pubblicato nel bel mezzo del successo con gli US Rails. Rispetto agli esordi del musicista, i più vicini per intenzione al mondo folk, il sound di Empire Bridges si è fatto decisamente più rock, in alcuni punti accattivante e moderno: la componente per così dire tradizionale dell'autore viene lasciata sullo sfondo, ad ispirare la sua scrittura, preferendo ballate elettriche che mostrano già una certa drammaticità nel dittico iniziale, Seek the Truth e Exhale, anche a costo di apparire un po' enfatiche. Gli arrangiamenti per archi di John Holland e le tastiere del collaboratore Tony Albrecht aumentano questa sensazione, fino a raggiungere una fastidiosa abbondanza in Shy (Revisited).

Più in generale Parsons adotta oggi uno stile rock melodico e profondo, diviso tra solido pop elettrico e un più generico suono accostabile all'Americana. Quando gli riesce di bilanciare bene queste due anime, specialmente nelle ballate, escono episodi trascinanti come Live Like the King, nervosa e tesa nelle ritmiche delle chitarre, e riflessive meditazioni elettro-acustiche quali True, Hide Away e Endless Sky, che sembrano risentire parecchio delle citate collaborazioni con Thibaud e Hale. Sono brani che hanno in parte il merito, insieme alla dolce Minefields (qui rientrano in gioco gli archi, con un'impasto più azzecato), di mettere in risalto la bella voce di Parsons, ideale per accompagnare i suoi testi riflessivi, i quali uniscono speranze personali e interrogativi sulla nostra società. Probabilmente il suo album più rock in senso classico, a tratti con un appeal radiofonico che non guasta, nonostante gli manchi sempre quel "quid" per uscire dall'angolo delle seconde scelte.


    


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