A Joseph Parsons non manca certamente lo spirito di iniziativa: dovessimo
soltanto limitarci ai suoi dischi solisti il conto salirebbe già a dieci, a partire
dall'esordio del 1995, compresi due live che sono apparsi regolarmente nelle cronache
del nostro sito. In realtà la produzione di questo autore di Philadelphia, ma
da diversi anni stabilitosi in Germania, va ben oltre la sfera personale: di lui
infatti si ricordano soprattutto le collaborazioni avviate con Todd Thibaud (il
più recente album in coppia è del 2011, Transcontinental
Voices), con gli Hardpan (al citato Thibaud si aggiungeva in questo
caso anche il talento di Terry Lee Hale) e soprattutto con gli US Rails, forse
il connubio artistico di maggiore successo in Europa, con un paio di lavori che
hanno venduto bene per le casse della Blue Rose, convincendo il gruppo a tornare
più volte in tour (imminente qualche data italiana a maggio).
L'etichetta
tedesca è effettivamente la seconda casa di Parsons, da sempre sostenitrice della
sua musica, motivo per cui da tempo l'artista ha definitivamente fatto i bagagli
dagli States, collaborando con una band per due quarti autoctona (Freddi Lubitz
al basso e Svan Hansen alla batteria) ai quali si aggiunge il fido chitarrista
Ross Bellenoit. Empire Bridges, registrato in gran parte in Germania,
segna dunque il ritorno di Parsons alle sue canzoni, tre anni dopo un disco, Hope
For Centuries, passato inosservato proprio perché pubblicato nel bel mezzo del
successo con gli US Rails. Rispetto agli esordi del musicista, i più vicini per
intenzione al mondo folk, il sound di Empire Bridges si è fatto decisamente più
rock, in alcuni punti accattivante e moderno: la componente per così dire tradizionale
dell'autore viene lasciata sullo sfondo, ad ispirare la sua scrittura, preferendo
ballate elettriche che mostrano già una certa drammaticità nel dittico iniziale,
Seek the Truth e Exhale,
anche a costo di apparire un po' enfatiche. Gli arrangiamenti per archi di John
Holland e le tastiere del collaboratore Tony Albrecht aumentano questa sensazione,
fino a raggiungere una fastidiosa abbondanza in Shy (Revisited).
Più
in generale Parsons adotta oggi uno stile rock melodico e profondo, diviso tra
solido pop elettrico e un più generico suono accostabile all'Americana. Quando
gli riesce di bilanciare bene queste due anime, specialmente nelle ballate, escono
episodi trascinanti come Live Like the King,
nervosa e tesa nelle ritmiche delle chitarre, e riflessive meditazioni elettro-acustiche
quali True, Hide Away e Endless
Sky, che sembrano risentire parecchio delle citate collaborazioni con
Thibaud e Hale. Sono brani che hanno in parte il merito, insieme alla dolce Minefields
(qui rientrano in gioco gli archi, con un'impasto più azzecato), di mettere in
risalto la bella voce di Parsons, ideale per accompagnare i suoi testi riflessivi,
i quali uniscono speranze personali e interrogativi sulla nostra società. Probabilmente
il suo album più rock in senso classico, a tratti con un appeal radiofonico che
non guasta, nonostante gli manchi sempre quel "quid" per uscire dall'angolo
delle seconde scelte.