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folk rock di
Marco Restelli (30/06/2015)
Ben
Reel è un musicista nord irlandese, proveniente dalla contea di Armagh, a
sud dell'Ulster, che a quanto pare non ha mai fatto nulla per mascherare il proprio
amore per i suoni provenienti dall'altra parte dell'oceano. La sua storia artistica,
così come conferma anche questo ultimo lavoro, didascalicamente intitolato "settimo",
dimostra che non è poi obbligatorio nascere a Nashville, o aver frequentato fisicamente
il Village, per scrivere canzoni che profumino di America. I quattordici pezzi
di 7th - comprese le 2 bonus track finali che ripropongono nuove
versioni di canzoni già pubblicate - pescano infatti a piene mani dalla tradizione
folk, rock e blues, con più di qualche venatura soul, proponendo un ventaglio
di stili eterogeneo che contribuisce a rendere sempre vivo il disco.
L'inizio
è piuttosto stradaiolo con una Lucky streak
piena di chitarre elettriche guidate da Mick McCarney e Gerry Black junior, subito
seguita da One of These Days, molto più folkeggiante,
con l'armonica dello stesso cantante (non caso sfoggiata al collo, anche in copertina)
a cesellare ogni curva del brano. A livello melodico spiccano senza dubbio Crushed
It - nella quale l'artista si lamenta con la sua (ormai) ex che accusa
di aver letteralmente distrutto l'amore che provava per lei - Say, dal
refrain radiofonico, e la ballata centrale God's World.
Forse quest'ultimo resta l'episodio di punta dell'album, con la voce calda di
David Olney (anche coautore) a accompagnare quella di Reel e un testo intenso
che parla di un mondo divenuto piuttosto difficile in cui vivere per tutti ("the
blind leading the blind leading the blind…").
Gli spunti degni di nota
- per fortuna - non finiscono così presto ed è piacevole, ad esempio, godersi
l'approccio quasi springsteeniano di Back on The Road, nella quale il sanguigno
artista irlandese racconta di quanto sia dura lasciare la propria casa ed i propri
affetti per andare in giro (verosimilmente in tour). Ma la promessa, alla fine,
è di far sì che al suo ritorno ne valga la pena per tutti. Non male davvero anche
il blues rock di Gimme Some Room - ancora armonica e chitarre di tutti
i tipi accompagnate da organo e piano, entrambi suonati da un ottimo John McCollough
- così come i due lenti Many a Time(medaglia
d'argento guadagnata sul campo) e l'acustica e dolcissima Coming Round Again
che, per forze espressiva e qualità, a mio avviso non sfigurerebbe in un disco
di Ryan Adams o Jason Isbell. Concludo evidenziando che era da un po' di tempo,
sinceramente, che speravo di ascoltare un disco che avesse un approccio spensierato
eppure suonato come si deve da un artista e una band palesemente affiatati, senza
tuttavia avere alcuna pretesa di voler cambiare il mondo con il proprio album.
In fondo, a dire il vero, per godersi un'oretta scarsa di musica non è neanche
necessario.