Il
Rock ha compiuto il giro e dopo mezzo secolo è tornato alle origini come non si
fosse spostato d'un metro. I segni nell'ultima decade c'erano stati, ma si è preferito
credere all'idea di una salvezza che sarebbe giunta da un genio solitario, da
una nuova moda, da un revival passeggero, dalle "nuove tecnologie", dall'autoproduzione
venduta come scelta. Intanto i locali chiudono, le vendite fisiche calano, la
qualità delle registrazioni crolla, la cultura sonora si restringe ai cultori,
i gruppi si fanno e disfanno senza un lascito, mentre i divi muoiono lasciando
un senso di vuoto. Nell'incertezza, perché il circo continui è stata cercata un'antica
musa e trovandola nel soul, gli artisti si son divisi sul versante Pickett e quello
Supremes (che il film The Commitments avesse predetto il tutto?) Perciò i nipoti
del Doowop spopolano (dai Coldplay ad Adele a Beyoncè sono figli di quella musica
e visione del mondo), quelli del rock'n'roll sono tornati nei ghetti e Scott
H. Biram pubblica il nono disco.
Cos'è cambiato dal precedente? Poco,
ma quel poco è la rifinitura. La ricetta è la stessa (un rock country che deve
molto al blues sporco di Jon Spencer e dei Gun club), ma con una dimensione vocale
che richiama Roky Erickson. A modo suo, The Bad Testament è un controcanto
sarcastico al tono tragico dell'ultimo disco di Cessna:
episodi radiofonici ad argomento religioso inseriti in molti brani indicano il
mondo di una provincia polverosa che emerge dal suono della produzione. Le danze
vengono aperte da Set Me Free, un arioso e
ballabile boogie che deve molto all'Erickson degli Aliens. In Still Around
Scott ripiega su una malinconia per abbozzi di acustica e voce ripulita. Red
Wine è un classico blues, dominato da un'elettrica e un basso così tradizionali
da renderla veramente filologica. Trainwrecker
è un saggio del suo amore per il Metal, ma disarcionato e costretto a dialogare
con l'assetto country in un esito che alla fine sembra punk. Long Old Time
è una scura ballata quasi Creedence con armonica distorta e chitarre desolate,
in cui emerge un senso di desolazione paesaggistica. Swift
Driftin' fa di quella desolazione un'autentica molla per un brano voce
e chitarra reattivo, umorale e sincero, segnato dalla voce rauca e sardonica.
Ecco il Soul, in Crippled and Crazy
la mossa di mescerlo col country genera un episodio ai limiti del gospel, cosa
che si completa con True Religion, un ironico e accusatorio brano ipnotico
per voci e sonaglio, vero saggio di cultura folk. Hit the River e Pressin'on
sono una continuazione dell'altra, country blues acidi e ispidi, privi di voci
che non siano versi gutturali e urla, con la chitarra e l'armonica a rincorrersi
incespicando. L'enigmatica What Doesn't Kill You,
una negazione complementare dei brani precedenti, per cassa in due quarti e chitarra
e armonica poste in soliloqui che talvolta s'incrociano nel segno delle note più
gravi.
Con le sue scelte questo disco indica lo stato dell'arte. Consigliato.