Moreland & Arbuckle
7 Cities
[
Telarc
2013]

www.morelandarbuckle.com


File Under: southern rock, rock blues

di Fabio Cerbone (27/09/2013)

Tracciando una sorta di filo rosso con alcune delle avventure storiche del rock blues dalla pelle bianca, la scommessa di questo duo del Kansas sembra seguire un po' le orme di Johnny Winter e ZZ Top: esordi nel segno di una integerrima aderenza alle radici, un forte legame con il linguaggio blues del delta, seppure in chiave elettrica, quindi una naturale propensione ad allargare o meglio ingrassare gli ingranaggi, nel solco di un suono più duro, diretto, in una parola sola: rock. 7 Cities rappresenta in qualche modo l'esito finale di questo percorso, inaugurato con il passaggio alla Telarc e maturato in lavori quali Flood (a tutt'oggi forse la sintesi migliore del loro stile) e Just a Dream. Immediata infatti è la spinta boogie di Quivira, quasi a saggiare il terreno senza tuttavia discostarsi troppo dal recente passato, ma già la pulsione funky di Kowtow (che ritona poi nel finale con Modern Boy) e ancor di più il ruzzolare southern rock di The Devil and Me, espressione piena delle radici seventies della band, sono il segnale di ambizioni che scavalcano il recinto della tradizione.

Li ricordo Aaron Moreland e Dustin Arbuckle sui palchi nostrani dei festival a tema roots & blues qualche stagione fa: duo secco e serrato nel gioco di rimandi tra la chitarra "cigar box" del primo e l'armonica furente del secondo, versione asciugata e radicale di certo downhome blues a metà strada tra il maestro Burnside e i fortunati discepoli Black Keys, anche se i cugini più stretti sembravano da subito i fratelli Dickinson (North Mississippi Allstars). Oggi le fustigate ritmiche più incisive del nuovo batterista kendall Newby, ma soprattutto la produzione di Matt Bayles (uno che arriva dal mondo dell'heavy, con i lavori per Mastodon e The Sword), cercano di espandere quel minimo necessario il vocabolario del gruppo, offrendo densità al suono: dal crepitio sudista di Broken Sunshine e Time Ain't Long, che esalta a dovere la voce soulful di Arbuckle e si avvale volentieri di una seconda voce femminile a indorare di gospel i brani, alle scudisciate di Stranger than Most, Road Blind, Bite Your Tongue e Waste Away, queste ultime tra i tanti assaggi hard boogie che facilmente accostano la ricetta di Moreland & Arbuckle ai fangosi ZZ Top della metà anni settanta (in Tall Boogie la cosa è talmente esplicita da resuscitare i fantasmi di La Grange…e della buonanima di John Lee Hooker, che chiede il conto).

Da più parti, senza stravolgere o condannare la loro vicenda artistica personale, restano visibili tracce di un blues rurale (lo strumentale Red Bricks) che è ancora la spina dorsale di questa interessante banda di cercatori d'oro blues del Kansas. È chiaro tuttavia che lo sguardo si è alzato dagli orizzonti del Deep South: c'è una sorpredente versione su accese cadenze soul rock di Everybody Wants to Rule the World (Tears for Fears, proprio il duo synth pop anni 80) a simboleggiare un po' il cambio di marcia. Non esattamente indolore, ma neppure così avverso alla loro storia personale.


     


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