File Under:
honky
tonk heroes di
Davide Albini (26/08/2013)
Che razza di nome, Sturgill. Trasmette già qualcosa di country solo a pronunciarlo:
uno così doveva per forza uscirsene con un disco come High Top Mountain,
che effettivamente è una vera festa per i palati più duri ed esigenti in fatto
di retro sound confezionato a Nashville. Sfrontata dozzina di brani - una volta
tanto la definizione di "instant classics" data dalla stampa americana non è troppo
generosa - che oserei dire fanno dell'honky tonk una filosofia di vita, nel solco
di Waylon Jennings, George Jones e di tutti i "fuorilegge" del genere.
Ci sono un sacco di clichè in High Top Mountain, ma sapete che vi dico: non è
questo il problema, quando la country music è suonata con tale rispetto e freschezza,
le questioni di originalità vanno a farsi benedire. E poi da quando in qua un
album country - parliamo di quello serio, "tre accordi e la verità" come si affermava
un tempo - deve rompere barriere e guardare al futuro?
Non scherziamo,
Sturgill Simpson sa quale deve essere il mestiere di un honky tonk man
e per il suo esordio solista (in passato leader dei Sunday Valley) si è scelto
gente dal curriculum inattaccabile: al piano c'è niente meno che la leggenda Hargus
"Pig" Robbins (lo trovate in tutte le hit dell'epoca d'oro di Nashville, dal citato
Jones a Loretta Lynn, da Patsy Cline a Willie Nelson), mentre la band di scavezzacolli
che scalda l'atmosfera del saloon arriva dal giro southern e alternative country
(Leroy Powell e Robby Turner alla steel) e infine il produttore è Dave Cobb, uno
che ha lavorato con Shooter Jennings e Jamey Johnson. Ecco due cugini ideali (e
contemporanei) di Sturgill Simpson che aiutano a descrivere gli orizzonti sonori
di High Top Mountain, raccolta che parte con il ruzzolare classico di Life
Ain't Fair and the World Is Mean e spara subito la cartuccia di Railroad
of Sin, hillbilly rock a tutto ritmo che ricorda il primo Marty Stuart.
Suono nitido a scopiettante, grande intreccio di Telecaster e pedal steel,
la missione di Simpson è riportare tutto a casa e devo dire che ci riesce alla
grande: a volte fa lo spaccone e il romantico (Water
in a Well, The Storm), abbandonandosi ai piaceri della ballata
(Hero, la più mielosa), ma quando parte in
quarta con la band è davvero uno spettacolo per gli estimatori dello stile. You
Can Have the Crown ad esempio, tutto un crepitare honky tonk elettrico
che fa il paio con Some Days, oppure in Time After
All, la migliore imitazione di Waylong Jennings da diversi anni a questa
parte, e funziona per dio. Nel finale Old King Coal
ci ricorda le dure origini di Sturgill, cresciuto nella zona povera delle miniere
del Kentucky prima di lavorare sui treni nello Utah e finire a Nashville in cerca
di fortuna (sceneggiatura che più classica non si può). Due le cover a chiudere
il disco, scelte con cura: Poor Rambler è
un indiavolato country rurale che porta la firma del patriarca Ralph Staley, dove
piano e steel fanno scintille, mentre la docile I'd Have to Be Crazy è
un brano del texano Steven Fromholtz. Aggiungetelo al club dei nuovi cowboy dal
grilletto facile.