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Laura Veirs
My Echo
[Bella Union 2020]

Sulla rete: lauraveirs.com

File Under: Love will tear us apart, again


di Yuri Susanna (30/11/2020)

Non si giudica un libro (e forse nemmeno un disco) dalla copertina, recita la saggezza popolare. E’ vero però che Laura Veirs, con quella posa di studiata vulnerabilità che campeggia sulla cover di My Echo, sembra voler da subito predisporre noi ascoltatori ad accogliere la natura intima, confessionale, dell’esperienza che ci aspetta una volta fatta scendere la puntina sui solchi del disco (pare proprio che le vendite dei vinili abbiano ormai superato quelle dei cd, quindi ci perdonerete la riesumazione di questo e altri consunti cliché della critica musicale d’antan). Anche senza conoscere i travagli personali che hanno accompagnato l’ultimo anno della vita della folksinger di Colorado Springs (il solito banale, ma non per questo meno straziante, divorzio dal marito e produttore Tucker Martine), non si fa fatica a cogliere tracce di malessere nelle liriche che la Veirs ha affidato a questi dieci nuovi brani.

Tali premesse potrebbero fare di My Echo il tradizionale "breakup album" ma in realtà lo sguardo si allarga a tematiche più ampie, ancorché sempre vissute con una partecipazione emotiva che non si perita di mettere a nudo l’anima dell’autrice (secondo cliché). La quale ha trovato modo di definire i temi del suo disco nei seguenti termini: “Queste canzoni sono permeate dall’invecchiamento, dai confini della vita domestica, dal nostro governo oppressivo e dalla minaccia dell’Apocalisse”. Nient’altro?, verrebbe da chiedere. Al di là delle ambizioni dichiarate, non si può non riconoscere la bravura della Veirs nel mantenere tutto questo dentro il perimetro di una forma-canzone accogliente, che mette a proprio agio con melodie sussurrate, arrangiamenti sognanti (si sprecano gli archi) e una struttura familiare e immediata che deriva da un’interpretazione non rigorosa della scrittura folk (nota a margine: impossibile non notare come il suo modo di cantare con il tempo ricordi sempre più quello di Suzanne Vega).

Paradossalmente, parte dei meriti del risultato finale vanno ascritti anche questa volta (l’ultima, probabilmente) al lavoro in sala di registrazione dell’ex marito, che risulta produttore anche di questo lavoro, così com’era accaduto in 10 degli 11 album in studio della Veirs (giusto per far comprendere quanto sia difficile distinguere i meriti di ciascuno, tanto era diventata strutturale la loro collaborazione). Non è difficile intuire la mano di Martine dietro certe scelte. Prendiamo il singolo Another Space and Time: un pigro ritmo da bossanova rimasticata in chiave indie-pop per cullare un racconto di utopia ecologista in cui “la California non brucia e il livello dei mari non si alza” e “Internet è morto e noi abbiamo trovato la pace mentale”. O Memaloose Island, che affida a una parte strumentale in odore di exotica (gli svolazzi pseudohawaiiani della pedal steel) un messaggio di timida speranza (“I was glad to be alive”). O, ancora, la facile ricetta pop-rock di Burn too Bright o il twang futuristico di Turquoise Wall.

Il resto scopritelo da soli, perché ogni brano, anche quelli di poco più di due minuti, rivela una cura speciale nel modo in cui è stato confezionato. Se questo è davvero il punto di arrivo di un percorso ventennale per questa autrice, lo dirà il tempo. Certo non è un brutto modo per chiudere una pagina, aspettando di scrivere un nuovo capitolo (e con quest’ultimo cliché, chiudiamo).


    


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