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Hugo Race Fatalists
Once Upon a Time in Italy
[Santeria/ Helixed 2022]

Sulla rete: hugoracemusic.com

File Under: hypnotic and blue


di Domenico Grio (18/04/2022)

Durante i controversi anni Ottanta si era incominciato a dibattere sul futuro della musica rock. Si usciva dalla furia nichilista del punk e le nuove generazioni non sembravano all’altezza dei miti dei sixties, i quali iniziavano ad avere i capelli bianchi ma continuavano a stare sulla scena pur non avendone più, secondo molti, titolo. Hugo Race in quegli anni iniziava la sua carriera, dapprima nei Bad Seeds e poi nei Wreckery, band da lui stesso fondata a Melbourne e siamo certi che all’epoca neppure si ponesse il problema. Da allora abbiamo scoperto che si può suonare una chitarra elettrica ed incendiare un palco, rimanendo ispirati e diversamente rivoluzionari, anche se si sono abbondantemente superati gli anta. Il vero rischio è però quello di restare intrappolati nei personaggi giovanili, diventare ostili ai cambiamenti e fingere che il passare del tempo sia una faccenda che riguarda altri. Da credibili a patetici, a ben guardare, superata una certa età, è un attimo.

La forza di un’artista è invece quella di attingere con spirito critico al proprio vissuto, di “invecchiare” assieme alla propria musica, prendendo atto che andando avanti con l’età si diventa altro e non necessariamente qualcosa di peggio, anzi. In questo quadro, Hugo non si colloca certo nella categoria “giovani a prescindere” e il suo nuovo lavoro, sul filone del precedente Taken by the Dream, altro non è se non l’elaborazione di quarant’anni di dischi, concerti, esplorazioni, viaggi e passioni di un uomo e di un musicista che non ha abiurato le proprie idee ma le ha pian piano traghettate in una nuova era, assecondando il progressivo inevitabile divenire. Un po' come il suo amico e mentore Nick Cave, marchia la sua musica con il suo metodo e con il suo stile ma ci mette la classe, la testa e l’esperienza del cinquantanovenne subentrato all’acerbo ventenne tutto preso a rincorrere i suoi sogni rock’n’roll.

Once Upon a Time in Italy contiene perciò le impronte dei progetti passati ma sfascia e ricompone, con ingegno, le trame e gli orditi già intrecciati. Le atmosfere sono sempre cupe e fascinose, il blues modernista ed ipnotico detta ancora la linea, così come la spiccata attitudine scenografica dei brani continua a prolungare gli sguardi, portandoli oltre i confini del visibile ma è la capacità di scendere in profondità nello sviluppo della narrazione, di ammantare il tutto con un’aura di sacralità che segna la netta distanza dal giovanotto che faceva da spalla a Nick “the Stripper”. Hugo, come direbbe Tom Waits, è uno che ha il voodoo. Lo ha sempre avuto e la voce, i suoni, la dimensione intima e liturgica in cui trovano sviluppo le canzoni, ora più che mai ci riconducono alla sua spiritualità, al suo forte legame con le radici e con l’essenza della musica. Per essere più chiari, non c’è dubbio che egli sia quello degli esordi, di Valley of Light, dei Dirtmusic e di altri cento progetti.

È tutto questo ma in maniera differente. E in questa trasformazione un ruolo notevole l’hanno avuto i Fatalists (Diego Sapignoli e Francesco Giampaoli), qui ancora una volta al suo fianco, e l’Italia, terra che lo ha a lungo ospitato. Non è un caso, infatti, che assieme ai 10 pezzi ufficiali dell’album, abbia aggiunto un EP (C’era una Volta in Italia) con 4 brani in italiano e che abbia voluto citare, al di là del già eloquente titolo, il cinema nostrano ed il maestro Morricone.

Il disco è di una bellezza segreta, sotterranea. Bisogna ripulire le perle che lo compongono che vederle brillare. Musicalmente approfondisce la componente folk, deprivandola dell’aspetto rurale. La cover di Hurdy Gurdy Man di Donovan è l’elemento classico, mentre la versione contemporanea trova la miglior forma nel duetto con Georgia Knight (Gold Digger) e nei ceselli articolati dal violino di TJ Howden che emergono già nella desertica Atomized. Mining the Moon e San Leone fluttuano nelle stesse acque incantate in cui era solito navigare il già citato Tom Waits, mentre la title track è l’omaggio definitivo al Bel Paese e fa tramontare la luce su un disco di suggestiva eleganza.


    


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