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Rolling Blackouts C.F.
Endless Rooms
[Sub Pop 2022]

Sulla rete: rollingblackoutsband.com

File Under: Australians do it better


di Yuri Susanna (01/07/2022)

Impossibile non volere bene ai cinque ragazzi dalla faccia arguta e sbarazzina che si celano dietro la sigla Rolling Blackouts Coastal Fever (d’ora in poi, per comodità, RBCF). In fondo, sono i nipoti (o i fratelli minori: dipende dal vostro stato anagrafico) che tutti vorremmo, quelli che, invece di trascorrere i pomeriggi oziando davanti a una Play Station, preferiscono spulciare tra la collezione di dischi dei padri o degli zii, per cercare qualche vecchio album degli Echo & the Bunnymen o dei Go-Betweens. Ovviamente non sappiamo come Joe White, Fran Keany, Tom Russo e gli altri della band vivessero le loro adolescenze in quel di Melbourne, però, visti i risultati, non è del tutto improbabile che abbiano davvero mandato a memoria i dischi dei loro padri. Fin dagli esordi con una serie di ep autoprodotti nel 2015 (e ancor di più con la firma per la Sub Pop e il primo album nel 2018) è stato chiaro che i RBCF sono nati con l’intenzione di avviare un dialogo con certo passato (più o meno) prossimo del rock, per servirlo con ludica ma anche lucida determinazione alle giovani generazioni dell’indie rock contemporaneo.

Arrivati all’appuntamento con quello che Billy Bragg chiamava il difficile terzo disco, è interessante capire come il suono di questi neorevivalisti innamorati del tintinnio delle chitarre e dei ritmi quadrati del post-punk britannico (ma anche del surf rock e del power pop americani, rivisti ovviamente in chiave “aussie”) possa evolversi e mantenere l’interesse del pubblico. Non ci sono grandi rivoluzioni in Endless Rooms, a dire il vero: le note stampa raccontano di come sia cambiato il metodo compositivo della band, abituata a lavorare in modo affiatato e a ricavare idee e spunti dall’abitudine di improvvisare insieme. Il lockdown ha portato ciascuno dei tre songwriter a comporre in solitudine e solo in un secondo momento a confrontare quanto prodotto con gli altri. Il risultato non modifica di molto quello che siamo abituati a sentire in un disco dei RBCF: le chitarre sono sempre lì a ricamare una fitta trama elettrica di arpeggi e assoli tintinnanti su un ritmo che passa da cadenze più sciolte e lisergiche (Caught Low e Open Up Your Window) a passaggi sincopati e veloci (My Echo, Saw You at the Eastern Beach), mentre le voci si inseguono e armonizzano con acerba complicità in un mare di riverberi.

Il modernariato anni ‘80 è forse un po’ più in evidenza (certe tastierine, che compaiono per esempio nel singolo The Way It Shatters o in Blue Eye Lake, o l’attacco di Tidal Wave, che può ricordare My Sharona dei Knack) ma non incide più di tanto nell’economia complessiva del sound della band. Le canzoni sono ancora ben costruite ed eseguite con passione e il disco tiene botta quasi fino alla fine (forse un paio di brani in meno e l’impatto sarebbe stato maggiore), tra echi dei Triffids e ammiccamenti ai Church. Insomma, i RBCF hanno scelto di rimandare il salto verso la maturità (le liriche, solo quelle, sono un po’ più serie del passato, con riferimenti alla pandemia, alle politiche migratorie e ai grandi incendi che hanno devastato l’Australia nell’anno passato) e di rimanere ancora a trastullarsi nel loro universo di revivalismo innocente e sornione. Niente di male, in fondo a noi piacciono proprio così.


    


<Credits>