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pop orchestrale di
Gabriele Gatto (27/09/2012)
La
critica musicale seria necessita di un certo grado di obiettività. Ma c'è un punto
di non ritorno in cui l'obiettività si scontra con una serie di fattori e giudizi
soggettivi, che necessariamente interferiscono con la terzietà del recensore.
Quest'ultimo non è una figura impersonale, ma è un soggetto con una personalità
ben definita e con dei gusti che, seppur temperati dal senso critico, non si possono
estirpare. Così, per onestà intellettuale, è bene che i lettori - anch'essi con
una sensibilità distinta da quella di altri sostenitori di siti sparsi per la
rete, ma questa è un'altra storia - sappiano che il loro recensore ama il rock'n'roll
e suona una chitarra elettrica rossa simile a quella che Elvis sfoggiava in occasione
del suo comeback del 1968. E questa premessa dovrebbe già dare qualche indicazione
sul giudizio finale. Fatte queste debite precisazioni, va detto che l'artista
in questione, ovverosia Antony Hegarty, negli ultimi è salito agli onori
delle cronache e delle critiche sia per le sue doti musicali, sia per una certa
curiosità morbosa relativa al suo orientamento sessuale di trans gender. Posto
che di quest'ultima a noi frega ben poco - e, anzi, il recensore è un ammiratore
sfegatato di una paladina dell'orgoglio lesbico come Mary Gauthier - ci interessa
il puro giudizio musicale e premettiamo già che, per quanto su queste pagine si
viaggi spesso per vie trasversali, il pop minimale di Antony da queste parti non
è proprio il pane quotidiano.
Antony e i suoi Johnson arrivano a questo
live dopo quattro lavori di studio, peraltro acclamati dalla critica più trendy
e da molti colleghi, fra i quali un insospettabile come Lou Reed, e scelgono una
delle vie più confacenti alla natura rarefatta delle proprie composizioni, ossia
quella orchestrale, registrrando a Copenhagen assieme alla Danish Orchestra.
L'accostamento non è nuovo per il mondo del rock. C'è da dire che tale veste,
peraltro condotta sulla base di partiture che risultano essere spesso notevoli,
piene di richiami a Debussy ed all'impressionismo francese, è sicuramente il punto
di forza del disco, e si amalgama ottimamente con i vibrati della voce di Antony.
Proprio la voce di Antony, però, è insieme il tratto saliente e il problema: da
un lato, il suo timbro è immediatamente riconoscibile e senza dubbio non privo
di fascino. Dall'altro, tuttavia, le interpretazioni vocali mancano di dinamica,
risultando monocordi, al punto che, se si ascolta quest'album anche solo con una
lieve distrazione, si rischia seriamente di non distinguere una canzone dall'altra.
Le dodici tracce del disco - undici canzoni più il chilometrico monologo
Future Feminism su cui il recensore, che è un cattolico praticante
ma soprattutto un appassionato di filosofia, preferisce non esprimersi più di
tanto - sono tutte giocate su tempi lenti o lentissimi. Non mancano momenti di
grande intensità come la title track, Epilepsy is Dancing,
con le sue meravigliose orchestrazioni ondeggianti o Kiss
My Name, l'episodio più mosso del disco, dove ricompare anche una batteria,
praticamente assente nel resto del programma. Tuttavia, salvo le eccezioni citate
e pochi altri momenti, le melodie e le canzoni in sé non presentano quasi mai
dei cambi di ritmo o di passo tali da impedire che un velo di sopore cada sugli
occhi dell'ascoltatore. Né la capacità compositiva sembra particolarmente sviluppata,
indugiando sulla reiterazione degli stessi schemi armonici e melodici. Insomma,
seppure non manchino aspetti positivi, il recensore non se la sente affatto, nonostante
il plauso quasi unanime che la critica riserva ormai a Hegarty, di consigliare
questo disco ai nostri affezionati lettori, che immaginiamo scaldarsi difficilmente
per i panorami sonori descritti da opere come queste. D'altronde non sarebbero
lettori di rootshighway, non credete?