Weinland
Los Processaur
[Jealous Butcher
2012]

www.weinlandmusic.com


File Under: indie rock, alt.country

di Yuri Susanna (16/01/2013)

Neanche fosse un brutto anatroccolo colpevole di non essere diventato cigno, Adam Shearer è stato messo da parte e quasi dimenticato. Eppure le stelle sembravano averne in qualche modo benedetto l'ascesa: fin da quel primo album (2006) intitolato Demersville e pubblicato a nome John Weinland, il barbuto (come di prammatica) folksinger della città più indie d'America - Portland, Oregon: cioè quella tessera di puzzle che sta tra la California e lo stato di Washington - sembrava un predestinato. Basta prendere nota di chi compariva su quel disco: M. Ward, Bright Eyes (al secolo Conor Oberst), membri sparsi di Dolorean e Decemberists... Scusate se è poco, per un esordiente. Il secondo lavoro, La Lamentor, raccolse recensioni positive un po' ovunque, e parve davvero che i Weinland (diventati intanto una band vera e propria) stessero per fare il salto di categoria. La cosa si ripeté anche con il successivo The Breaks in the Sun, lavoro forse meno cupo ma sempre legato a un'estetica di moderno folk sofferto e virato al blu. Da qualche parte tra Elliott Smith, Mark Kozelek e Will Oldham, se vi interessano le coordinate. Ma il salto non c'è stato, e la band è rimasta un'attrazione dentro i confini dell'Oregon (dove i loro show vanno tranquillamente sold out) e un nome di nicchia nel resto dell'orbe.

I tre anni che separano Los Processaur dal predecessore, anche se non sono frutto di un calcolo (il disco era in lavorazione nel 2010, poi vicissitudini varie ne hanno ritardato il completamento e l'uscita), autorizzano a considerarlo quasi come un secondo esordio, tanto segna una soluzione di continuità rispetto ai lavori precedenti. Sparite quasi completamente le tracce di quella riflessività sadcore che aveva inchiodato la loro musica a ripetuti paragoni con i (soliti) nomi ricordati sopra, i "nuovi" Weinland si presentano come una rock band che non disdegna di picchiare sulle pelli dei tamburi e di alzare il volume delle chitarre. Un cambio di paradigma che disorienta, ma funziona dannatamente bene. Il nuovo verbo che Shearer e soci masticano con soddisfatta convinzione è una specie di alt-country sbilenco, un indie-roots che individua i propri referenti nei Wilco (Way Too Soon, oppure la scorbutica grazia di Another Dollar Rainy Day), nei vicini di casa Decemberists (soprattutto quelli del recente ritorno alle radici, vedi la solarità folk-rock di Bones Cracking In) e in parte anche nei My Morning Jacket (Yessie Yames è già nel titolo un omaggio a Yim Yames, alias Jim James), o negli Okkervil River (Saints & Sinners).

Chi l'avrebbe detto che, dietro la limpida malinconia folk cui ci aveva abituati, Shearer nascondesse l'abilità di far partire ganci pop o riff tetragoni come quello di Holy Rose (in cui lambiamo addirittura territori hard-blues anni '70)? Eppure le canzoni parlano da sole, e raccontano che mettendo in primo piano le chitarre, usando le tastiere (Hammond B3 e piano) come contrappunto e sfruttando la forza delle armonie vocali - affidate per lo più a Alia Farah - la scrittura di Shearer raggiunge una dimensione in qualche modo "classica" (i dylanismi di The Champ o il country-rock di The Eagle lo rivelano) e ne esce rafforzata e vincente. Eppure il produttore è quello di sempre (Adam Selzer), e anche i comprimari. Forse la chiave sta in una canzone del disco, una dedica alla sua città (si intitola Portland, semplicemente), in cui a un certo punto Shearer canta: "It rains 364 days a year here/ On the other day the weather's fine." Ecco, se i precedenti dischi dei Weinland suonavano come un distillato di quei 364 giorni, Los Processaur sembra concepito nel giorno rimanente. Forse la differenza è tutta qua.


    


<Credits>