Chelsea Wolfe
Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs
[Sargent House
2012]

www.chelseawolfe.net
www.sargenthouse.com

File Under: The frozen borderline

di Gianfranco Callieri (06/11/2012)

Volendo attenermi alla sua scheda su Wikipedia, dovrei definire la musica della californiana Chelsea Wolfe (nome della cantante, ma anche della band che di solito l'accompagna) come "drone-metal-art-folk". Non avendo ancora bevuto abbastanza (non a quest'ora della sera) e non avendo la minima idea del significato di tale classificazione, proverò invece a dirvi che i due dischi del gruppo/chanteuse, il rarefatto The Grime And The Glow (2010) e il drammatico, scombussolante ?????????? ('11), assomigliano allo straziato punto d'incontro tra il magnetismo new-wave di Kate Bush e l'inquietante vulnerabilità di Cat Power, la rabbia cieca e feroce della prima PJ Harvey e il post-punk catacombale dei Crime And The City Solution. Album non per tutti i gusti, insomma, spesso sconcertanti e nonostante questo dotati di quel raro magnetismo, peraltro comune a tutte le opere in grado di scuotere in modo radicale, capace di suggestionare respingendo e, contemporaneamente, affascinando.

Secondo un'altra descrizione, stavolta dell'interessata, Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs dovrebbe incorniciare un ritorno alle proprie radici folk, alla dimensione minimale eppure bruciante e disperata delle canzoni di Hank Williams e Townes Van Zandt. Ora, può darsi sia piuttosto complicato ritrovare tracce dell'uno o dell'altro nella mezz'ora scarsa impiegata da queste dieci canzoni per dispiegare la propria raggelante intimità, ma se del fatalismo tragico dell'autore di My Bucket's Got A Hole In It o dello scrittore nichilista di Nothin' si ricerca una trasposizione ideale, magari diversissima sotto il profilo dei suoni ma altrettanto efficace nel dipingere il vuoto terminale di esistenze perseguitate da fallimenti, fantasmi, maledizioni del destino e volti dispersi nei ricordi, allora la missione di Unknown Rooms risulta perfettamente compiuta.

Basta infatti collegarsi, anche di sfuggita, ai sussurri gotici di The Way We Used To, alle harmonies sottilissime di una Spinning Centers divorata dal rimorso, al fingerpickin' quasi spettrale della sommessa Flatlands o al gospel pagano di una Boyfriend che sembra registrata in una casa infestata da anime morte, per restare intrappolati in un clima di lacerante nudità emotiva, dove le percussioni spiritiste (e assai ben dosate) dei PIL di Flowers Of Romance prosciugano gli occhi di Nico del proprio dolore, il dark-folk degli Swans di The Burning World incontra la stregoneria folkie di Soap & Skin, un senso quasi irrespirabile di rovina e disincanto adultera la freschezza notturna delle fragili melodie. Appalachia - il pezzo migliore della raccolta - è puro country riletto con l'ansia esistenzialista di Everything But The Girl (zona Amplified Heart) e Portishead, ma la voce, in questo caso, ricorda soprattutto quella di Beth Gibbons, sempre sul punto di spezzarsi in un respiro definitivo di dolcezza e tristezza, sentimento e disillusione. Ogni tanto spunta l'intervento degli archi, altro elemento essenziale nella creazione di una genuina atmosfera di ambiguità e distanza, forse ancor più efficace rispetto agli album precedenti. Una donna, un microfono, i propri misteri e i propri demoni: abbastanza, insomma, per restare incantati.


     


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