Levon Helm
Ramble at the Ryman
[Vanguard  2011]



Testimonianza al tempo stesso di uno splendore artistico e umano, dopo una seria malattia che ne ha minato fortemente la voce e lo spirito, Ramble at the Ryman trasferisce temporaneamente le celebrazioni dal vivo, solitamente denominate Midnight Ramble (concerti nel suo quartier generale di Woodstock, aperti a numerosi amici e ospiti, già in passato pubblicati per la propria etichetta) nella capitale del country, Nashville. È infatti sulle assi del glorioso Ryman Auditorium, casa natale del Grand Ole Opry e sorta di tempio immacolato della tradizione americana, che viene catturato questo magico show del settembre 2008, all'apice di un ritorno discografico (Dirt Farmer) per la Vanguard e nella preparazione dell'altrettanto apprezzato seguito (Eletric Dirt), di un anno successivo. Sono gli estremi di una rinascita che ha sancito Levon Helm quale figura indiscussa, quasi mitologica della southern music, custode di un patrimonio e padre putativo per le generazioni di oggi (basti pensare ai recenti Black Crowes che registrano Before the Frost… nei suoi studi). L'intento commemorativo non deve far pensare ad una parata di stelle senza anima, perché il disco vibra di una armonia musicale, di un clima di gioia e complicità che rifugge da qualsiasi atteggiamento un po' tronfio: certo è innegabile che la festa al Ryman Auditorium si svolga con lo sguardo rivolto al passato, al canzononiere immortale della Band (con sei classici in scaletta), ma la qualità delle interpretazioni, la fantasia degli arrangiamenti, ne riflettono un'immagine diversa, autorevole e credibile perché non necessariamente nostalgica. C'è insomma la giusta dose di spontaneità in Ramble at the Ryman per non qualificarlo come un disco per soli fan, quanto piuttosto come una rivelazione per chi non ha mai preso seriamente in considerazione la centralità di Levon Helm all'intreccio fra radici bianche e nere del rock'n'roll.

Introdotto dalla voce del cerimoniere Billy Bob Thorton, Helm siede spesso dietro i tamburi come da copione (esiste anche una versione in Dvd della serata, per chi non si accontentasse della semplice evocazione dell'audio), mostra una voce provata ma ancora indimita e dirige la sua personale "orchestra", caratterizzata dalle presenze dell'inseparabile Larry Campbell (chitarre, mandolino, fiddle), di Brian Mitchell (accordion, piano) e della figlia Amy (Ollabelle) ai cori. In aggiunta una bollente sezione fiati, che trasuda i ritmi e la magia della Big Easy (New Orleans), arrichisce e marchia a fuoco la performance, trasformando la scaletta in una girandola di caldissmo rock'n'soul dai profumi sudisti, la dove la Memphis di Chuck Berry (Back to Memphis) di incrocia con la tradizione bianca della Carter Family (il classico No Depression in Heaven, proposto con l'ospite Sheryl Crow).

Come anticipato, la natura celebrativa del concerto è aperta alle collaborazioni, come se Levon Helm e i suoi invitati riconoscessero reciprocamente il proprio rispetto: da una parte un musicista che ha indicato la via, dall'altra però altrettanti autori e interpreti da cui lo stesso Helm ha attinto per ridare senso alla propria discografia. Difficile non riportarli tutti singolarmente, perché ogni comparsa diventa il pretesto per un viaggio, una digressione nei linguaggi e nella terra della southern music, a cominciare dall'armonica e dalla voce di Little Sammy Davis in Fannie Mae e Baby Scratch My Back, meno noto forse alle cronache delle altre star. Subito dopo appare infatti la voce di Sheryl Crow, perfettamente calata nel ruolo con il duetto di Evangeline (qui manca la regina Emmylou, ma non pare farsi rimpiangere) e nella citata No Depression in Heaven, svoltando verso la campagna e l'anima hillbilly della band di Levon Helm. In tal senso il cuore dello show è rappresentato dall'apparizione sul palco di Buddy Miller e Sam Bush, maestri dell'Americana che offrono una accoppiata da brividi con il gioiello country Wide River to Cross e la lunga sarabanda in stile New Orleans del traditional Deep Elem Blues.

La commovente Anna Lee, cantata in coppia con la figlia Amy, divide idealmente la scaletta grazie ad un momento di raccoglimento folk per sole voci e violino, prima di riprendere trionfalmente un viaggio lanciato in corsa grazie al songbook della Band: il solo indiavolato rockabilly di Time Out for the Blues e la trascinante saga roots di A Train Robbery spezzano la cavalcata, che vede in sequenza una strepitosa Rag Mama Rag, la più contenuta The Shape I'm In ma soprattutto gli oltre sette impetuosi minuti di una Chest Fever da applausi. Che la chiusura venga affidata ad una prevedibile The Weight, con la rauca voce di John Hiatt, non cancella affatto l'idea che Levon Helm e la sua colorata orchestra siano riusciti a riflettere una lettura ancora frizzante e attuale di questo repertorio, calcando la mano sulle "contaminazioni" r&b, soul e New Orleans style da sempre insite nei brani. Un party in piena regola insomma: verrebbe voglia di assistere al più presto a una di queste adunate. Il Midnight Ramble d'altronde è sempre aperto, come una sorta di "never ending tour": fatevi sotto allora!
(Fabio Cerbone)


www.levonhelm.com

La scaletta

1. Ophelia // 2. Back To Memphis // 3. Fannie Mae // 4. Baby Scratch My Back // 5. Evangeline // 6. No Depression In Heaven // 7. Wide River To Cross // 8. Deep Elem Blues // 9. Anna Lee // 10. Rag Mama Rag // 11. Time Out For The Blues // 12. A Train Robbery // 13. The Shape I'm In // 14. Chest Fever // 15. The Weight



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