Testimonianza al tempo stesso di uno splendore artistico e umano, dopo una
seria malattia che ne ha minato fortemente la voce e lo spirito, Ramble
at the Ryman trasferisce temporaneamente le celebrazioni dal vivo, solitamente
denominate Midnight Ramble (concerti nel suo quartier generale di Woodstock,
aperti a numerosi amici e ospiti, già in passato pubblicati per la propria etichetta)
nella capitale del country, Nashville. È infatti sulle assi del glorioso Ryman
Auditorium, casa natale del Grand Ole Opry e sorta di tempio immacolato della
tradizione americana, che viene catturato questo magico show del settembre 2008,
all'apice di un ritorno discografico (Dirt Farmer) per la Vanguard e nella preparazione
dell'altrettanto apprezzato seguito (Eletric Dirt), di un anno successivo. Sono
gli estremi di una rinascita che ha sancito Levon Helm quale figura indiscussa,
quasi mitologica della southern music, custode di un patrimonio e padre putativo
per le generazioni di oggi (basti pensare ai recenti Black Crowes che registrano
Before the Frost… nei suoi studi). L'intento commemorativo non deve far pensare
ad una parata di stelle senza anima, perché il disco vibra di una armonia musicale,
di un clima di gioia e complicità che rifugge da qualsiasi atteggiamento un po'
tronfio: certo è innegabile che la festa al Ryman Auditorium si svolga con lo
sguardo rivolto al passato, al canzononiere immortale della Band (con sei classici
in scaletta), ma la qualità delle interpretazioni, la fantasia degli arrangiamenti,
ne riflettono un'immagine diversa, autorevole e credibile perché non necessariamente
nostalgica. C'è insomma la giusta dose di spontaneità in Ramble at the Ryman per
non qualificarlo come un disco per soli fan, quanto piuttosto come una rivelazione
per chi non ha mai preso seriamente in considerazione la centralità di Levon Helm
all'intreccio fra radici bianche e nere del rock'n'roll.
Introdotto dalla
voce del cerimoniere Billy Bob Thorton, Helm siede spesso dietro i tamburi come
da copione (esiste anche una versione in Dvd della serata, per chi non si accontentasse
della semplice evocazione dell'audio), mostra una voce provata ma ancora indimita
e dirige la sua personale "orchestra", caratterizzata dalle presenze dell'inseparabile
Larry Campbell (chitarre, mandolino, fiddle), di Brian Mitchell (accordion, piano)
e della figlia Amy (Ollabelle) ai cori. In aggiunta una bollente sezione fiati,
che trasuda i ritmi e la magia della Big Easy (New Orleans), arrichisce e marchia
a fuoco la performance, trasformando la scaletta in una girandola di caldissmo
rock'n'soul dai profumi sudisti, la dove la Memphis di Chuck Berry (Back
to Memphis) di incrocia con la tradizione bianca della Carter Family
(il classico No Depression in Heaven, proposto
con l'ospite Sheryl Crow).
Come anticipato, la natura celebrativa del
concerto è aperta alle collaborazioni, come se Levon Helm e i suoi invitati riconoscessero
reciprocamente il proprio rispetto: da una parte un musicista che ha indicato
la via, dall'altra però altrettanti autori e interpreti da cui lo stesso Helm
ha attinto per ridare senso alla propria discografia. Difficile non riportarli
tutti singolarmente, perché ogni comparsa diventa il pretesto per un viaggio,
una digressione nei linguaggi e nella terra della southern music, a cominciare
dall'armonica e dalla voce di Little Sammy Davis in Fannie
Mae e Baby Scratch My Back, meno
noto forse alle cronache delle altre star. Subito dopo appare infatti la voce
di Sheryl Crow, perfettamente calata nel ruolo con il duetto di Evangeline
(qui manca la regina Emmylou, ma non pare farsi rimpiangere) e nella citata No
Depression in Heaven, svoltando verso la campagna e l'anima hillbilly della
band di Levon Helm. In tal senso il cuore dello show è rappresentato dall'apparizione
sul palco di Buddy Miller e Sam Bush, maestri dell'Americana che
offrono una accoppiata da brividi con il gioiello country Wide
River to Cross e la lunga sarabanda in stile New Orleans del traditional
Deep Elem Blues.
La commovente Anna
Lee, cantata in coppia con la figlia Amy, divide idealmente la scaletta
grazie ad un momento di raccoglimento folk per sole voci e violino, prima di riprendere
trionfalmente un viaggio lanciato in corsa grazie al songbook della Band: il solo
indiavolato rockabilly di Time Out for the Blues
e la trascinante saga roots di A Train Robbery spezzano
la cavalcata, che vede in sequenza una strepitosa Rag
Mama Rag, la più contenuta The Shape I'm In
ma soprattutto gli oltre sette impetuosi minuti di una Chest
Fever da applausi. Che la chiusura venga affidata ad una prevedibile
The Weight, con la rauca voce di John Hiatt,
non cancella affatto l'idea che Levon Helm e la sua colorata orchestra siano riusciti
a riflettere una lettura ancora frizzante e attuale di questo repertorio, calcando
la mano sulle "contaminazioni" r&b, soul e New Orleans style da sempre insite
nei brani. Un party in piena regola insomma: verrebbe voglia di assistere al più
presto a una di queste adunate. Il Midnight Ramble d'altronde è sempre
aperto, come una sorta di "never ending tour": fatevi sotto allora! (Fabio
Cerbone)
1. Ophelia // 2. Back To Memphis // 3. Fannie Mae // 4. Baby
Scratch My Back // 5. Evangeline // 6. No Depression In Heaven // 7. Wide River
To Cross // 8. Deep Elem Blues // 9. Anna Lee // 10. Rag Mama Rag // 11. Time
Out For The Blues // 12. A Train Robbery // 13. The Shape I'm In // 14. Chest
Fever // 15. The Weight