The Rolling Stones
Blue & Lonesome
[Polydor 2016]

www.rollingstones.com


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di Gianfranco Callieri (28/12/2016)

Vogliamo credere alle coincidenze? Blue & Lonesome sarebbe nato grazie alla prontezza dell'ingegnere del suono Krish Sharma nell'incidere un'estemporanea versione "di riscaldamento" del pezzo omonimo di Little Walter, risalente al 1959 e utilizzato dai Rolling Stones per sciogliersi un po' durante le prove di alcuni brani nuovi. Dalla riuscita e dal feeling di quell'unico adattamento pare sia nato l'intero progetto, registrato in tre giorni appena presso i British Grove Studios (situati in quella parte occidentale di Londra dove il gruppo mosse i suoi primi passi più di mezzo secolo fa) e dedicato appunto alla rivisitazione del blues elettrico di Chicago e dintorni dal quale i nostri, a inizio carriera, trassero ispirazione e trucchi interpretativi. Pur verosimile, la ricostruzione potrebbe essere nient'altro che l'ennesimo piano promozionale architettato intorno a chi ha costituito, e continua a costituire, "la più grande rock'n'roll band al mondo", un'impresa commerciale, dal giro d'affari milionario, per la quale, tutto sommato, lo slogan del ritorno alle origini e della ritrovata purezza può funzionare piuttosto bene e orientare all'acquisto anche milioni di utenti del tutto ignari di chi siano stati Leonard Chess e suo fratello Phil (d'altronde, la conoscenza del retroterra di un'operazione musicale non può essere un requisito obbligatorio).

Con una controindicazione: quella, cioè, di scontentare gli estimatori che al discorsetto del rientro alla crudezza blues degli esordi ci hanno creduto per davvero, trovandosi poi tra le mani un disco dove asprezza, violenza e visceralità sono invece proscritti o confinati a piccolissimi accenni, come d'altra parte puntualmente accade dal 1994 dell'ingresso in squadra del produttore Don Was, sempre ineccepibile nel far sembrare gli Stones più giovani di quanto non dica la loro anagrafe, ma non certo un propugnatore di suoni sporchi, sgradevoli o pungenti. Ecco, quindi, Blue & Lonesome ottenere due tipi di riscontro: da un lato l'approvazione incondizionata degli ammiratori di lungo corso, secondo i quali le riletture di questi attempati miliardari sarebbero più espressive, e davvero non si capisce perché, degli originali di un Howlin' Wolf nel pieno dei suoi appetiti (alimentari e sessuali), e dall'altro il biasimo di chi, sempre tra i conoscitori, si rammarica di come l'album non suoni con la stessa, scorticata, primitiva intensità di Jon Spencer Blues Explosion o Chrome Cranks.

Per quanto mi riguarda, trovo entrambe le posizioni viziate da un difetto di prospettiva (e, certo, d'amore), perché se l'urgenza originaria, l'eros famelico, il desiderio represso e l'ossessività di I Can't Quit You Baby, scritta nel 1956 da Willie Dixon ma portata al successo da Otis Rush, resta irraggiungibile persino se a riprenderla in mano sono i Led Zeppelin metallici del primo album, pretendere da musicisti che messi assieme fanno circa 300 anni di età la stessa energia e la stessa immedesimazione di chi è nato venti o trent'anni dopo è semplicemente ridicolo. (Digressione. È vero, Jon Spencer ha prodotto un disco, bellissimo, di RL Burnside, bluesmen di Lafayette noto per il suo gesto sudicio e sgangherato, ma in quel caso si è limitato a riempire, alla sua maniera, lo spazio ossuto e convulso rimasto tra le frustate di una chitarra intenta, come quella di Mississippi Fred McDowell, a reiterare sempre gli stessi giri da mal di testa, ispirati in egual misura dal blues rurale del paese di nascita e dall'andamento ipnotico e circolare di quello africano. Fine della digressione.)

E tuttavia, quello di Blue & Lonesome resta comunque un risultato straordinario, e non solo perché l'intreccio tra i tamburi mostruosi di Charlie Watts e il basso di Darryl Jones (diciamolo pure: molto più dotato, in senso tecnico, del predecessore Bill Wyman) produce una sezione ritmica da paura, allucinante per come riesce a mettere in circolo le sensazioni e le passioni di una vita fa, o perché l'armonica di Mick Jagger torna protagonista come non accadeva dai tempi delle fulminanti versioni live di Midnight Rambler proposte nei '70 (al contrario le chitarre di Keith Richards e Ron Wood sono raramente in primo piano: il loro dialogo, emotivo, rituale, quasi gospel, serve soprattutto a costruire una pulsazione costante e affidabile); il suo risultato è straordinario perché raccoglie l'eredità del passato (non la interpreta, non la stravolge, non le strappa la pelle di dosso: la raccoglie e basta) facendo i conti, con onestà, sul presente di chi suona, oggi, e si trova appunto a confrontarsi con quella parte di passato che non passa.

Blue & Lonesome non vuole reinventare il blues o strapazzarne i connotati, e proprio per questo non mira a risultare grezzo e senza compromessi. Il suo obiettivo è quello di dar voce al confronto tra quattro musicisti maturi e la loro gioventù, rievocata con classe, eleganza e stile, come se quel mondo antico di canzoni e suggestioni costituisse ancora un'opportunità, e una chiave di lettura, per interrogare il presente e cascarci in mezzo. Ne è venuto fuori un disco da vecchi istrioni in ballo per un ultimo valzer, in certi aspetti signorile come Eric Clapton (sue la slide su Everybody Knows My Good Thing e l'assolo irreprensibile sull'ultima I Can't Quit You Baby) o elusivo come JJ Cale, in altri sciamanico e cinematografico (sentite il sortilegio agreste della Hoo Doo Blues di Lightnin' Slim, portata in piano sequenza visionario dalle percussioni di Jim Keltner), in altri ancora gonfio di affetto e nostalgia per le emozioni di una formazione musicale allora in divenire (è il caso della Little Rain di Jimmy Reed, in cui Jagger soffia dentro l'armonica tutti i debiti e il rispetto verso un artista purtroppo dimenticato). Gli Stones di Blue & Lonesome si sentono, già dal titolo, "tristi e soli", alieni rispetto a un'attualità che non solo non riescono a replicare, ma nemmeno a digerire con le loro dinamiche di sempre, forse persino seccati dal copione per cui riff e aggressioni ritmiche debbono sbucare un po' ovunque, anche solo per poter ascrivere (su Wikipedia) l'ultimo A Bigger Bang (2005) alle categorie di "hard-rock" (?), "garage-rock" (??) e "punk-blues" (???).

A questi Stones non occorrono effetti speciali, solo il raccoglimento necessario per accompagnare, senza una nota di troppo, le schermaglie tra il piano acustico di Chuck Leavell e il Wurlitzer di Matt Clifford su Ride 'Em On Down (Eddie Taylor). Di conseguenza, il rock-blues di Blue & Lonesome sgorga sincero, sentito, divertito, classico, anche malizioso e sexy. Ma soprattutto, com'era probabilmente nelle intenzioni, finalmente normale. A modo suo, una piccola rivoluzione.



    


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