Natalie Merchant
Natalie Merchant
[
Nonesuch
2014]

www.nataliemerchant.com

File Under: Natalie is back

di Marco Restelli (19/05/2014)

Aspettavo questo disco da tredici anni. Oh sì è vero, la nostra Natalie in questo enorme lasso di tempo ha pubblicato del materiale artisticamente interessante, come nel caso di House Carpenter's Daughter o, ancor di più, del dolcissimo e più recente Leave Your Sleep, ma in nessuno dei due casi si trattava di canzoni totalmente sue (nel senso di "testo e musica"). Se penso all'ultimo disco in cui ciò invece avvenne (Motherland del 2001), mi vengono in mente emozioni forti che, sinceramente, avevo tanto sperato di poter in qualche modo riprovare. E così, quando ho inserito nel lettore il suo nuovo ed omonimo disco, appena uscito, le mie orecchie erano ben attente, quasi come antenne pronte a captare le vibrazioni che poteva potenzialmente regalarmi. Ebbene, è bastato il primo ascolto - al quale ne sono seguiti molti altri - a confermare che Natalie Merchant aveva fatto di nuovo centro.

Intanto la sua voce vellutata: il passaggio degli anni non l'ha intaccata minimamente - a dispetto di quel ciuffo brizzolato che con orgoglio mostra sulla copertina - rimanendo la stessa dei bei tempi spesi con i 10.000 Maniacs o dei primi album solisti. Quanto alle canzoni, poi, l'iniziale e (a sua detta) autobiografica Ladybird è poesia pura: i suoi versi descrivono la sensazione di una donna che vive la propria relazione quasi fosse in una gabbia costruitale intorno, proprio come un uccello, continuamente insoddisfatta, essendo la sua passione ormai sfumata da tempo e con essa anche l'amore. Vorrebbe volare via, ma il senso di responsabilità verso i figli è troppo forte e poi, in fondo, dove potrebbe mai andare? Da brividi. Seguono prima i rimpianti di Maggie Said, nel cui ritornello la protagonista del brano, ripensando alla propria vita, ripete malinconicamente: "cosa ho ottenuto per tutto questo, a cosa è servito….a niente questo è sicuro!" e poi la splendida Texas, ballata folkeggiante (dilatata dalla lap steel guitar di Erik Della Penna) che forse suonerà fra le cose più familiari e piacevoli ai lettori di RootsHighway.

Natalie si addentra in sentieri, almeno apparentemente, a lei non congeniali con il soul nero di Go down Moses nella quale spiccano la collaborazione di John Medeski all'organo, di Uri Sharlin al pianoforte e soprattutto di una splendida Corliss Stafford, agli incredibili cori. In realtà risulta verosimilmente uno dei pezzi più incisivi, dimostrando come in fondo la cantautrice newyorkese abbia ancora voglia di mettersi alla prova ed emozionare il suo pubblico. Dopo la "sanguinosa guerra" dei sentimenti di Seven Deadly Sins ed il dark orchestrale di Giving Up Everything il disco subisce un altro piacevole sussulto con It's a-coming. Qui è ancora l'organo a far da padrone, ma stavolta il brano ha un andamento inatteso (quanto meno rispetto al mood generale), più incalzante e sostenuto da una sezione ritmica finalmente in prima linea, che mi ricorda piacevolmente Carnival, dall'album d'esordio Tigerlily. Episodio notevole. L'eclettica Lulu e l'apocalittica The End, entrambe arricchite da tappeti di archi, incorniciano nel finale un disco che ha il pregio di regalarci una Natalie Merchant più matura, la quale non solo non ha tradito le attese ma, probabilmente, le ha addirittura superate. A voi giudicare: ma a mio avviso è un must have.


   


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