Bruce Springsteen
High Hopes
[Columbia/ Sony
2014]

www.brucespringsteen.net


File Under: Bruce's land

di Marco Denti (14/01/2014)

La storia comincia all'epoca di Born In The USA quando Bruce Springsteen, per giustificare i non memorabili remix di Arthur Baker, cominciò a sostenere che ci deve essere uno spazio di tolleranza tra l'artista e i fans, in cui il primo può capire fin dove spingersi e gli altri vedere fin dove possono accettarlo. Quella zona demilitarizzata è una delle più belle invenzioni degli annali del rock'n'roll, ma resta un'invenzione, una bella favola raccontata ad uso e consumo del momento, e i remix di Arthur Baker adesso sembrano persino naïf. E' quello che celava nell'ombra, che è diventato oggi predominante. Per tutta la prima parte della sua carriera, Bruce Springsteen ha fatto il possibile per smentire i rock'n'roll cliché: nessuna droga, nessun eccesso, dischi studiati nei minimi particolari fino all'ossessione, anche quando erano incisi in modo rudimentale, Nebraska su tutti, concerti che si trasformavano in psicodrammi umani e teatrali. Con gli anni, molti dettagli si sono affievoliti, altri sono sfumati, altri sono andati "lost in the flood", come è giusto che sia con il tempo e con l'esperienza. In fondo, qualche particolare si è rivelato anche evasivo, se non costruito ad hoc, che il making di una rock'n'roll star è uno dei lavori più complessi e fragili che esistano nell'universo intero. La contraddizione in sé non è un problema che riguarda l'artista, visto che un artista o si contraddice o non è un artista. Lo è per i fans costretti a chiedersi: di chi o di cosa stiamo parlando quando parliamo di Springsteen? E' una storia o sono due metà che non combaciano più? Come diceva Willie Dixon, non si può giudicare un libro dalla copertina, però in questo caso la copertina dice tutto: sfocata, double, così come doppio e sfocato è High Hopes. In una delle prime versioni, a riprova della sua natura ambivalente, esce con un bonus disc (DVD) che comprende l'intero Born In The USA dal vivo a Londra. Ecco, per farla breve, se High Hopes fosse il bonus disc della deluxe edition di Born In The USA (scusate i francesismi), dieci e lode e non ci sarebbe discussione. Il condizionale è obbligato dal fatto che è il nuovo disco di Springsteen, o almeno dovrebbe esserlo.

Siamo già nel campo dell'ambiguità e il punto non è Tom Morello, l'elettronica, gli arrangiamenti, i suoni, le cover, l'arte del riciclo. In quel magico spazio tra artista e fans possiamo comprendere tutto, pur riservandoci la possibilità di accettare quello che ci piace e quello che non ci piace. Il punto è che nella sua doppiezza High Hopes non solo non è nuovo, ma è già vecchio. Non solo è disordinato, è anche confuso. E' random e contraddittorio in sé perché smentisce la svolta pop di Magic e di Working On A Dream sulla quale peraltro sia Bruce sia l'entourage si erano spesi parecchio (risultati, modestissimi), tenta di riallacciarsi alla forza di The Rising senza averne l'autorevolezza, il coraggio e, per farla breve, lo spessore, cerca di riallaciarsi alla dignità (non molto di più, diciamo la verità) di Wrecking Ball che già ondeggiava di suo. Un bel patchwork che lo spinge nella parte bassa dell'onda sinuosidale della carriera di Bruce, visto che nel suo DNA c'è Born In The USA (appunto) e molto (più di quello che sembri) Human Touch. Perché High Hopes, a partire dalla chitarra di Tom Morello, è un disco fatto di cliché e di luoghi comuni, con dentro un po' di tutto, ma tutto sconnesso. Senza voler fare i produttori o i manager di turno, che Bruce Springsteen ne ha già abbastanza intorno, è evidente che qualcosa non funziona perché se nemmeno un quarto chitarrista, nonostante gli sforzi e i rumori e i fraseggi e i suoni, riesce a interpretare il ruolo di lead guitar nella E Street Band, vuol dire che è andato perso l'obiettivo più importante e con ogni probabilità anche un'idea di suono. Succede dal vivo, e succede in High Hopes, dove Tom Morello, al di là delle innegabili prove di forza, non sa dove portare la canzoni e come diceva sempre Jeff Beck, un assolo deve portare sempre da qualche parte, o almeno provarci. In High Hopes non succede e tra l'altro non è chiaro dove sta tutta la novità della chitarra di Tom Morello. A parte il fatto che non si evince la necessità di tutta questa furia chitarristica sventolata in modo plateale ed eccessivo in The Ghost Of Tom Joad, bisogna anche dire che quei funambolismi, a saldo di effetti e volumi vari, ricalcano l'assolo con cui Nils Lofgren ha trasformato Youngstown. In più, l'esercizio di stile è compiuto, su una canzone che, se fosse necessario ribadirlo, non ne aveva bisogno.

A un artista si può perdonare tutto e a Bruce lo perdoniamo più che volentieri. Si possono cambiare le carte in tavola, e dare un'altra mano di poker. Il rock'n'roll, ce l'ha insegnato Springsteen, è promessa, sogno, speranza ed è un tiro di dadi per cui l'incoerenza non è un peccato. Anzi, nel rock'n'roll il peccato non esiste proprio. Però, e anche questo ce l'ha ripetuto lui più di tutti, sulle storie non possiamo transigere e in High Hopes anche le felici intuizioni di Down In The Hole o Invisible Hunter Of The Game o persino Harry's Place si perdono in una marasma che ha tutto, meno l'ispirazione. Ha la nostalgia di Frankie Fell In Love, la dolente elegia di The Wall, il traballante tentativo di accreditarsi all'underground dei Saints e dei Suicide. Per fortuna non ci sono duetti, ma il catalogo delle opportunità così come delle ovvietà è stato sfogliato fino a fare gli angoli alle pagine e la differenza da comprendere in High Hopes non è tanto nel merito, che è sempre discutibile e dipendente dalle variabili dei gusti personali, ma del metodo, perché nella seconda metà della sua carriera, e in particolare negli ultimi anni, Bruce ha assecondato più o meno tutti i meccanismi e gli schemi contro cui si era sempre battuto. O, almeno, aveva cercato di schivare. Proprio a partire dai dischi. Fino a Born In The USA, la cernita era tra il meglio e le outtakes di Darkness, per non dire quelle in arrivo di The River, sono lì a dimostrarlo. Come tagliare un salame. Da Born In The USA in poi è stato il meno peggio, come riempire la salsiccia con quello che è rimasto. Un metodo vale l'altro, solo che nel secondo caso si sono spalancate le porte all'insostenibile leggerezza dei rock'n'roll cliché e le aspettattive, le "grandi speranze" sono diventate via via sempre più metaforiche e sempre meno concrete. La ripetizione è dietro l'angolo, la tentazione di invocare qualcosa che non c'è anche, come succede in Heaven's Wall, una canzone destinata in modo palese allo stadio, dove le canzoni e i concerti non finiscono mai. Solo che stiamo parlando di un disco, e non conta nemmeno il fatto che qualcuno High Hopes lo abbia messo insieme mentre Springsteen saltava come un canguro sui palchi di mezzo mondo. O che nel presentarlo, tutti quanti, da Tom Morello a Ron Aniello (scusate la rima) allo stesso Bruce Springsteen, confondano più livelli parlando dei concerti, di altri due dischi già pronti, di un sacco di idee ancora da focalizzare. Si capisce anche da High Hopes che la soglia di attenzione è stata smussata, solo che le storie cominciano a non andare più d'accordo tra di loro.

Il punto è che in quella terra di nessuno tra i fans e l'artista, da Born In The USA in poi è sempre stato Bruce ad allargarsi, alternando qualche diversivo e la difesa ad oltranza delle posizioni, svolte coraggiose e richiami all'ordine. Un procedere a fasi alterne ben rappresentato dalla nota dicotomia tra Lucky Town e Human Touch, e va da sé che High Hopes lo metto da questa parte della "e". Anche all'epoca le perplessità, non tanto sull'operazione e sul tenore dei dischi, pur sempre opinabili, quanto su come era stata raccontata e presentata la storia, furono parecchie. Bruce e il suo entourage dissero che Lucky Town era nato nel giro di pochi giorni, in un impeto di creatività, e che era stato incastrato insieme a Human Touch, già pronto. Si spesero con entusiamo per celebrare Lucky Town, arrivando a svelare argomenti personali e familiari (l'uomo era diventato papà nel frattempo) eppure non spiegarono un granché di come si era arrivati al pot-pourri di Human Touch. Ora, visto che nella "società dello spettacolo" si può raccontare di tutto, a nessuno cambia sapere com'è nato davvero Human Touch, però nello spazio tra artista e fans, e quello spazio Bruce l'ha usato parecchio, esiste un angolo in cui i motivi dell'esistenza di un disco devono avere un domicilio fiscale ed è chiaro a tutti che Lucky Town è il "nostro disco" e Human Touch quello di qualcun altro. Il riferimento non è casuale: High Hopes, con la sua natura raccogliticcia, è stato presentato persino come "un'anomalia", eppure cerca di imporsi senza averne bisogno e qui va capito che non è la qualità o la quantità (che comunque latitano), ma proprio la necessità di riappropriarsi di uno spazio, di non dover per forza alzare le mani al cielo a comando, di accontentarsi, una volta tanto (anche se negli ultimi anni è sempre più frequente) di un lavoro interlocutorio, le cui motivazioni risiedono nell'imponderabilità dell'artista e nella concretezza dei suoi bisogni, e amen.

Ecco, un po' di laicità, in quell'elastico spazio di tolleranza di cui si parla dai tempi di Born In The USA, è necessaria e vale tanto per Bruce quanto per noi perché, pur con tutte le considerazioni specifiche, un rapporto è biunivoco o non è un rapporto. Nell'evoluzione del legame tra artista e fans dovrebbe starci anche una via di fuga e il vero problema di High Hopes, delle "grandi speranze" e delle "terre promesse" è che le storie e le canzoni hanno tutto, ma non c'è l'uscita di sicurezza. Quella gliela possiamo dare noi e serve soltanto un po' di onestà per archiviare High Hopes non per quello che è, ma per quello che vorremmo che fosse: il quinto volume di Tracks o il primo di Tracks 2. Per il capolavoro, per gridare "Bruce, Bruce, Bruce" all'infinito c'è sempre tempo, ma le storie, così come ci sono state raccontate, vanno rispettate. Una storia ha senso. Di due, l'altra comincia ad essere di troppo.


     


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