File Under:psychedelic
haze di
Fabio Cerbone (15/03/2016)
Da
qualunque parte lo si osservi, il nuovo corso artistico di Ray Lamontagne
è spiazzante, soprattutto per chi lo aveva già incasellato in quello splendido
crescendo di asprezze roots e confessioni soul che ammantavano la sua produzione
con Ethan Johns. Il cambio di scenario nel precedente Supernova e l'entrata di
Dan Auerbach (Black Keys), con le sue ambizioni fra rintocchi psichedelici e sconfinamenti
pop, era il campanello d'allarme, un sacrosanto desiderio di mettersi in discussione,
ma anche un passo più lungo della gamba, che sacrificava non poco la personalità
dell'autore e raccoglieva alla rinfusa materiale a volte di seconda mano, altre
capace di mostrare ancora la scintilla. Ouroboros - il famoso serpente
che si morde la coda, simbolo di rigenerazione universale - non scoglie i dubbi
e si ferma nuovamente a metà del guado: scampoli di un talento che non si è eclissato
all'improvviso, ma anche soluzioni vocali - un uso che si fa quasi manieristico
del falsetto - e arrangiamenti che schiacciano spesso il cuore più genuino della
scrittura di Lamontagne, fra trame sfilacciate.
Un album a due volti,
affetto da un desiderio di grandeur nella ricerca dei suoni, eppure nella
seconda ideale facciata in grado di riprendersi il suo spazio e infilare zampate
di classe, che lasciano aperto uno spiraglio sul futuro. Un dato è certo, Ray
Lamontagne ha voglia di rischiare ed è disposto a sacrificare, forse troppo, il
suo carattere per farsi guidare dal regista di turno: oggi tocca a Jim James
dei My Morning Jacket e la sua impronta fra nebbie psichedeliche, riverberi
ingigantiti e poderosi synth anni settanta non passa inosservata: dal "flusso
di coscienza" di memoria Van Morrissoniana siamo passati ai Pink Floyd di un strumentale
come A Murmuration of Starlings, dall'estetica blue eyed soul siamo entrati
in una girandola di chitarre spaziali. Non c'è soluzione di continuità fra i brani,
una sorta di messa in scena in due atti divide il disco: la prima parte è quella
più confusa e disorientante. Gli otto minuti di Homecoming
vanno in crescendo fra acustiche e pianoforte con una voce tra la sabbia e il
sussurro e testi ricchi di immagininazione, ma il brano si sfalda, è impalpabile
fino a diventare un fantasma e ricorda, senza la stessa tenuta, le intuizioni
di Til the Sun Turns Black.
Il trittico successivo invece calca la mano
su un rock dalle tentazioni settantesche con divagazioni blues psichedeliche che
tolto l'effetto d'ambiente e quel "finto vintage" che piaceva tanto al vecchio
produttore Auerbach (evidentemente James ha seguito il tracciato) non approda
da nessuna parte e soprattutto perde per strada una delle caratteristiche di Lamontagne:
il saper affinare ballate soulful e delicatezze melodiche. Finita la bolgia di
echi con la celestiale (e indigesta) While It Still Beats, si torna sul
sentiero di una seducente "cosmic music" americana, con tracce di morbida California
in acido (In My Own Way) e sospiri acustici
che tentano di recuperare il recuperabile (Another Day, in fondo uno scarto
dei dischi passati), fino al dittico di chiusura che dal citato monologo floydiano
di A Murmuration of Starlings si scioglie nella carezza bluesy di Wouldn't
It Make a Lovely Photograph. Qualche sussulto, legittimi desideri di
cambiare passo, ma c'è ancora molta confusione sotto i cieli di Ouroboros.